Livia Manera, Corriere della Sera 04/01/2013, 4 gennaio 2013
IL CARTOONIST CHE PARLAVA MILANESE
Che delizia leggere che Gio Ponti era stato tra i primi a incoraggiare il suo allievo Saul Steinberg dicendogli che aveva la stoffa dell’artista insieme a quella dell’architetto. Era il 1936 e Steinberg era un giovane studente fuori corso al Regio Politecnico, fuggito quattro anni prima dalla «fogna» della Romania e determinato ad assorbire quanto più poteva della cultura di quel «laboratorio della modernità» che era la Milano degli anni Trenta. Non che quel ragazzo destinato a diventare il più grande cartoonist americano abbia mai avuto l’intenzione di esercitare il mestiere dell’architetto. Si laureò in fretta e furia nel 1940 dando quindici dei sedici esami necessari in meno di un anno, per sfuggire alle leggi razziali e raggiungere New York con una laurea in tasca.Ma otto anni di passeggiate milanesi con un taccuino in una mano e la matita nell’altra, a disegnare le arcate della Galleria Vittorio Emanuele e gli edifici di Città Studi, Piola e Lambrate, avrebbero lasciato un segno su molti dei suoi futuri lavori pubblicati dal «New Yorker».Se Saul Steinberg, l’ebreo di Bucarest figlio di un modesto stampatore, è ancora oggi ricordato come l’autore di «quel poster» ? un’ironica veduta del mondo dalla Nona Avenue di Manhattan, con il Kansas e il Nebraska come una zattera tra il fiume Hudson e l’Oceano Pacifico, e subito oltre, sulla stessa linea, Cina, Giappone e Russia ? è anche perché a Milano aveva imparato a disegnare «qualcosa di più di quello che l’occhio può vedere».Una nuova, sterminata biografia di Deirdre Bair appena uscita negli Stati Uniti da Doubleday col titolo Saul Steinberg, racconta la vita del più amato dei cartoonist del «New Yorker» mettendo al centro della sua formazione gli anni milanesi dal 1932 al 1941, seguiti da una feconda rete di rapporti con intellettuali italiani ? Costantino Nivola, Aldo Buzzi, Ugo Stille, Niccolò Tucci ? che avrebbero contribuito a illuminare di cosmopolitismo un Greenwich Village abitato da Willem De Kooning, Philip Guston e Alexander Calder in cui andava affermandosi quella società intellettuale affamata di nuovo e piena di energia, che avrebbe lanciato la cultura americana nel dopoguerra. Ma chi era veramente Saul Steinberg, si chiede questa biografia che s’iscrive nel lungo rilancio dell’artista cominciato con una retrospettiva al Whitney Museum nel 1978, vent’anni prima della sua morte seguita a una lunga e terribile depressione.La risposta è un grande seduttore dal cuore freddo, un dandy felino capace di affascinare i più sofisticati ma anche di immusonirsi se non era l’unico centro dell’attenzione; un uomo di immenso successo (e conseguente ricchezza) e altrettanto smisurato narcisismo: «uno scrittore che disegna», come gli piaceva definirsi, la cui immodesta certezza di appartenere «alla famiglia di Stendhal e Joyce», doveva essere stata una condanna a un’eterna frustrazione. «Sai perché siamo rimasti amici così a lungo noi due?», gli chiese la moglie Hedda Sterne dopo vent’anni di compulsive infedeltà. «Perché siamo le due persone che ti amano di più». Era una donna eccezionale, Hedda Sterne, anche lei di origine romena: intelligente, colta, indipendente. L’unica artista di sesso femminile ad apparire sulla celebre copertina di «Life» del 1951 con i protagonisti dell’Espressionismo Astratto americano. Steinberg la lasciò nel 1960 per la giovanissima figlia di un nazista ? la proto hippy Sigrid Spaeth ? con cui s’imbarcò in «una guerra lunga trentacinque anni» che terminò il giorno in cui lei si gettò dal tetto del palazzo dove lui le aveva comprato un appartamento. Se una cosa questo libro mette in luce, è l’anima nera di un artista che quando disegnava sapeva essere ironico e leggero come nessuno. La dissociazione tra l’uomo che soffre e quello che crea di cui ha parlato T. S. Eliot, nel caso di Steinberg sembra un abisso.Ma non, curiosamente, negli anni milanesi, quando il solo fatto di essersi lasciato alle spalle una madre ingombrante fino alla caricatura ? a Steinberg piaceva disegnare famiglie che si gettano unite dal tetto di grattacieli ? aveva liberato l’energia creativa di un ragazzo di un’intelligenza eccezionalmente adattabile (tra le sei lingue che parlava c’era il dialetto milanese). Le sole pagine allegre della storia di questo ebreo con la valigia che diceva che nel suo caso sarebbe stato opportuno sostituire la parola «autobiografia» con «autogeografia», sono quelle dedicate agli anni in cui il Bar del Grillo di via Pascoli era il centro di una Milano internazionalmente ammirata per l’arte, l’architettura, il disegno industriale, la moda, l’opera e la letteratura. E intorno a quella «latteria» con camere a ore al piano superiore, gravitavano giovani promesse come Aldo Buzzi e Alberto Lattuada, Erberto Carboni e Luigi Comencini. Erano gli anni in cui Steinberg si guadagnava da vivere disegnando vignette umoristiche per «Il Bertoldo» di Giovanni Mosca ed entrava nel comitato di direzione del «Settebello» di Cesare Zavattini e Achille Campanile, che si riuniva nella camera sopra il Bar del Grillo dove Steinberg divideva il letto con la spericolata contrabbandiera Ada Cassola. Furono le Leggi Razziali a mettere fine alla pacchia. Saul Steinberg diventò dalla mattina alla sera un apolide. Si mise sotto a studiare con Ponti e con il voto di 65 su 100 conquistò «una laurea in discriminazione e pregiudizio» che sottolineava la sua appartenenza alla razza ebraica. «Erano tempi crudeli e stupidi», avrebbe detto da vecchio a uno studente americano negandogli con rabbia il permesso di scrivere una tesi di dottorato sui suoi anni milanesi. Una cosa era essere sfuggito alle retate della polizia sfrecciando sulla bicicletta prestata da Giovanni Guareschi, mentre sottobanco disegnava ancora per Mosca e Zavattini. Un’altra era farsi conoscere come un ebreo che aveva collaborato alla stampa fascista. Sarebbe stato troppo complicato da spiegare.
Livia Manera