Pino Corrias, Vanity Fair 2/1/2013, 2 gennaio 2013
SALVATORE STRIANO (A 12
anni il contrabbando, a 14 il riformatorio, a 16 la coca e le rapine, a 18 il carcere e poi il cinema e il teatro. tutto grazie a Skakespeare)–
Seduti alla stazione Termini, davanti ai molti binari della vita, Salvatore Striano, detto Sasà, la barba di un giorno, gli occhi veloci, racconta i suoi arrivi e le sue partenze dettate da quel grande orario universale che si chiama destino.
Sasà viene dai buchi neri della strada, i Quartieri spagnoli di Napoli. È sceso all’inferno. È risalito. Ora sta sul palcoscenico, dentro la luce del cinema. È il protagonista di un film evento. Cesare deve morire, tratto dal Giulio Cesare di William Shakespeare, girato nel braccio Alta sicurezza del carcere di Rebibbia, diretto dai fratelli Taviani. Dopo l’Orso d’Oro a Berlino ha vinto un’altra dozzina di premi.
È il film che si sperava potesse rappresentare l’Italia agli Oscar. Alla fine non ce l’ha fatta a guadagnare la nomination, ma a Sasà poco importa. Questo film, uscito in 72 Paesi nel mondo, gli ha già cambiato la vita. E stato in Thailandia e nelle Filippine a presentarlo: «Mai viaggiato così tanto. A Manila, alla fine del film, dopo gli applausi, c’era una fila lunga da qui a lì di gente che mi ha detto bravo in tutte le lingue del mondo. E io a tutti ho risposto in napoletano, grazie guaglio’».
Ha intenzione di pedinare il film in giro per il mondo?
Ride. «Non è che mi dispiacerebbe. Ho scoperto che gli attori vivono come sognano di fare i malavitosi, anzi i boss: volando comodi come dentro a un bagno caldo, alberghi bellissimi, donne sorridenti, tutti ti vogliono, tutti ti abbracciano, ti senti in cima al mondo».
E invece quando era boss come si sentiva?
«Mamma mia. L’ultima volta che stavo all’estero, nella mia vita di prima, ero a Marbella in Spagna, avevo una pistola infilata nei calzoni, documenti falsi e una montagna di cocaina in corpo. Due anni di latitanza. Cambiando casa e documenti ogni novanta giorni. Di notte mi svegliavo di soprassalto e di giorno, anche davanti al mare, mi guardavo le spalle. Se vuoi ti racconto».
Siamo qui per questo. Per capire come è fatto dentro e fuori questo miracolo d’attore che i fratelli Taviani hanno definito una forza della natura, e addirittura «uno dei migliori attori che abbiamo diretto negli ultimi sessant’anni».
Sasà Striano di anni ne ha quaranta, ma se glielo chiedi se ne scala tredici: «Quelli che mi ha mangiato il carcere non li voglio contare». In realtà lui viene anche da lì, da quegli anni neri, imprigionato in una vita che sembrava senza vie d’uscita. Salvo quel giorno di molti anni fa in cui un compagno del braccio gli ha chiesto se voleva partecipare a una cosa che si chiama teatro, «dove si vivono altre vite».
«E io gli dico: che significa altre vite? Però mi ha incuriosito. Così sono sceso al laboratorio dove ho incontrato due santi, uno era in carne ossa, si chiama Fabio Cavalli e fa teatro dentro il carcere da trent’anni. L’altro era solo d’inchiostro, si chiama Shakespeare, ed era fatto di parole nuove da pronunciare».
Le parole formavano La Tempesta. Il suo ruolo era Ariel, lo spirito dell’aria, quello che chiede la libertà per i prigionieri.
«Ho cominciato che facevo fatica a leggerle quelle parole. Poi ho capito che mi stavano tutte nel cuore e mi entravano in testa come una rivelazione. Di colpo mi era tornata in mente mamma che da ragazzino mi diceva che ero nato per fare Fattore perché raccontavo bugie, pazziavo, cercavo sempre di fregare tutti».
Quella era sopravvivenza, non recitazione.
«Appunto. Invece col teatro entravo veramente nella vita di un altro, scoprendo che era tanto più bella. Da quel giorno ho voluto ricominciare a scrivere la mia».
Parliamo dei fogli che ha buttato via.
«Sono fogli stropicciati, com’erano le strade dove sono cresciuto».
La Napoli dei vicoli, quella senza sole.
«A 12 anni vendevo sigarette a signore per bene e banditi di strada, a vigili urbani, poliziotti, prostitute. Mai a nessuno è venuto in mente di chiedersi che cazzo ci faceva un bambino lì in mezzo».
I suoi genitori, la scuola?
«La scuola l’ho lasciata in terza elementare, mi sembrava di perdermi il meglio della vita. Mio padre, poveraccio, lavorava al porto, usciva di casa alle sei del mattino e rientrava alle nove di sera per dormire. Mamma stava dietro a mia sorella che era sempre ammalata. Non cerco giustificazioni. È andata così: da piccolo mi sono fatto grande e mi sono dimenticato della testa».
Niente alfabeti, solo fretta.
«L’ossessione erano i soldi. A 13 anni vendevo hashish agli americani, a 14 ho cominciato a rubare».
Appartamenti, autoradio, che cosa?
«Rolex. In due sul motorino, uno strappa, l’altro guida».
La vita in contromano. Il primo muro?
«Il riformatorio a 14 anni. Mi sono attribuito la pistola di un mio amico maggiorenne, roba da codice d’onore».
Risultato?
«Finisco in una comunità per sette mesi, il Ponte, dove l’educatore si faceva le canne con noi. Per il resto botte, bande, omertà».
Quando torna fuori è peggio.
«Torno fuori e c’è la guerra per strada. Siamo alla fine degli anni Ottanta, centinaia di morti ammazzati, li raccoglievano le ambulanze all’alba come si fa con i rifiuti».
Lei entra in guerra?
«Non serve entrarci. La guerra è una cosa che ti entra dentro da sola».
Più adrenalina o più paura?
«Le due cose stanno sempre insieme. A legarle ci pensa la cocaina. E più hai paura, più diventi un guerriero. Io vivevo con la pistola addosso, era la mia spada; la cocaina il mio scudo»
Entra in una banda?
«No, ne fondo una io stesso»,
La fonda con gli amici di strada.
«Con i fratelli di strada: insieme contro il mondo».
E il mondo qual era?
«Tutto quello che potevamo assaltare, negozi, gioiellerie, banche».
E le famiglie dei camorristi?
«Ci lasciavano fare, poi ci chiedevano il pizzo».
Su cosa?
«Come su cosa, sulla refurtiva».
Padroni pure dei ladri.
«Almeno fino a quando non ci siamo scocciati e abbiamo detto no, niente pizzo, meglio morti che sottomessi».
E quindi?
«Abbiamo fatto anche noi la nostra guerra. In quartiere ci chiamavano la banda delle Teste matte perché ci eravamo messi contro le famiglie».
Il lieto fine non è previsto.
«Il lieto fine è che resti vivo. Ma intanto diventi un mostro che corre contro il tempo, sempre in paranoia, sempre strafatto. Con l’illusione che puoi tenere sotto controllo tutto, basta rimanere con gli occhi aperti».
Poi arriva la notte sbagliata.
«Arriva la notte in cui sei distratto, oppure sfinito, oppure solo sfortunato. Cadi in trappola. Ti infilano in una macchina e poi a testa in giù dentro a una buca».
A lei invece è toccato il carcere.
«Avevo diciotto anni. Mi ricordo le due guardie che mi hanno spinto dentro e il portone che si richiudeva alle mie spalle. Dietro a quel portone c’era la luce del mondo, davanti a me il buio».
Quanto è durato?
«Un anno. E quando sono uscito ero ancora peggio perché il carcere è una super scuola del crimine, impari dal trafficante come si taglia la roba e dall’assassino come si taglia una testa».
Quindi esce laureato.
«Laureato, cieco e rapinatore di banche. Mi riempio di soldi, di cocaina, di giubbotti da 4 milioni di lire. Dopo un paio di anni devo scappare. Arrivo latitante in Spagna. Conosco un gruppo di marocchini svegli, metto in piedi un buon traffico di hashish, vivo a Granada, Malaga, Cadice, sempre scappando».
Fino a quando arriva la resa dei conti.
«Un giorno mi bloccano in quattro per strada, Sasà, tu hai un conto in sospeso. Mi buttano per un anno e mezzo in un carcere di Madrid. Poi l’estradizione, il processo, la condanna a 14 anni e otto mesi».
E lì comincia il suo ultimo girone.
«Carcere di Rebibbia, l’inferno, l’astinenza da cocaina, la paura dell’animale braccato, la solitudine, mia madre che muore e io che neanche posso andare al funerale a dirle addio».
Poi un giorno arriva Shakespeare.
«E finalmente si accende una luce, non so leggere, non so scrivere, ma sento che mi parla, che nelle sue tragedie ci sono i miei pensieri più profondi, i miei segreti, i miei terrori. Mi metto a studiare come un matto. E quando debutto in scena faccio una scoperta sensazionale».
Quale?
«Che per la prima volta la gente mi guarda senza spaventarsi».
Da lì in avanti comincia la discesa.
«Il santo William fa il miracolo. Nel 2006 arriva l’indulto, esco di galera, la vita torna a spalancarsi, faccio Napoli milionaria e Luca De Filippo sale ad abbracciarmi. Mi chiama Umberto Orsini, ridivento Ariel per una intera stagione. Viene a vedermi Matteo Garrone e quando sta preparando Camorra si ricorda di me e mi chiama».
I Taviani quando li ha incontrati?
«Quando preparavano le riprese del Giulio Cesare dentro Rebibbia».
Lei era libero da cinque anni.
«Per girarlo mi sono fatto di nuovo carcerato».
Aveva paura di tornare nella pancia della balena?
«Si, quando il primo giorno ho sentito di nuovo quella puzza di carcere, volevo scapparmene via. Poi ho rivisto i miei fratelli carcerati e ci siamo abbracciati».
Lei per loro è una speranza.
«Lo so, e me lo sento come dovere. Voglio raccontare a tutti i miei fratelli quanta gioia si provi a uscire, alzare gli occhi e camminare dalla parte giusta. Il mio maestro Cavalli mi ha detto: "Prima stavi dentro una luce pericolosa per gli altri. Ora ne hai trovata una pericolosa solo per tè: non lasciarti abbagliare"».
È un buon consiglio.
«E lo seguirò, senza farmi troppe illusioni. Il regalo della seconda possibilità l’ho già avuto e mi basta».
Recitare ne offre mille.
«Sai cosa mi piace più di tutto? Che quando spari a uno e finisce la scena, quello si alza, ti prende sotto braccio e si va a mangiare».