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 2013  gennaio 03 Giovedì calendario

SARÀ GUERRA PER BANCHE


I maggiori banchieri levano alti lai. «Siamo in un momento di straordinaria difficoltà» ammette Francesco Micheli, capoazienda della Intesa Sanpaolo. «La situazione è senza precedenti» conferma Roberto Nicastro, direttore generale dell’Unicredit. Per Alessandro Profumo, presidente del Monte dei Paschi, «siamo dentro a un buco, bisogna capire come uscire». Ma le banche italiane non erano le più sane d’Europa?
«È vero, sono più solide ma meno liquide proprio perché italiane» risponde Antonio Foglia, azionista della Banca del Ceresio e gestore di un fondo a Londra. «Quelle tedesche sono fragili ma liquide perché tedesche». E mostra un confronto tra Deutsche Bank e Intesa: il colosso germanico è strapieno di derivati, però non ha molti crediti in sofferenza, mentre il gruppo italiano è gonfio di titoli pubblici e ha più prestiti a rischio. La banche sono al centro della crisi, insiste Foglia (porta lo stesso nome del nonno, l’imprenditore che dopo la Seconda guerra mondiale rimise in piedi la borsa), e la colpa di tutto è avere consentito che si lanciassero nell’avventura della finanza con un capitale troppo esiguo rispetto ai rischi assunti. A quattro anni dal crac Lehman, il lupo ha perso il pelo non il vizio.
Intendiamoci, il collasso sistemico si è allontanato. Un anno fa la Bce ha salvato le banche europee con prestiti illimitati all’1 per cento. Su 1.000 miliardi di euro erogati le aziende italiane ne hanno presi 250. Che fine hanno fatto?
Antonio Solinas, partner della Deloitte, scrive nel suo ultimo rapporto che «i prestiti hanno aiutato a migliorare la liquidità a breve termine. In Italia sono serviti soprattutto per acquistare titoli di stato al fine di abbassare il rendimento e aumentarne il valore, in quanto gravano negativamente sulla riserva». Insomma, le banche hanno aiutato ad abbassare lo spread, ma hanno impiombato i bilanci. «Se il vento cambia, i Btp sono un buon affare» ribatte Gianfranco Torriero, direttore centrale per le strategie e i mercati dell’Abi, l’associazione delle banche italiane.
Secondo Marco Onado, docente alla Bocconi, uno dei maggiori studiosi del settore, «la strategia basata su due armi – molta liquidità e una sostanziale ricapitalizzazione guidata dagli stress test dell’autorità bancaria europea – non ha rimesso in moto i meccanismi del normale flusso di credito all’economia. Il rapporto sulla stabilità finanziaria pubblicato dalla Banca d’Italia un mese fa conferma la stretta, mettendo per di più in evidenza la divaricazione sempre più netta a danno dei paesi periferici di Eurolandia».
L’Abi mostra che rispetto a un anno fa i prestiti alle famiglie sono negativi, i mutui vicini a zero, il credito al consumo è sceso del 6 per cento. È lo specchio della recessione. «La banca opulenta non c’è più, meglio dimenticarla» ammette Micheli. Il bancocentrismo è finito e le imprese debbono trovare altri modi per finanziarsi, ripetono gli esperti. Quali non è chiaro: le aziende hanno grande difficoltà a ricorrere al mercato, le piccole e medie, poi, sono tagliate fuori.
Il modello italiano, dunque, va ripensato, ma attenti a gettare il bambino con l’acqua sporca. Finora nessuna banca è stata nazionalizzata e nessuna è fallita. Il Monte dei Paschi rappresenta un’eccezione. Salvato nel 2009 con 1,9 miliardi di Tremonti bond e adesso con 2 miliardi di Monti bond, il suo bilancio è stato appesantito da 27 miliardi di titoli pubblici, oltre che dai 9 miliardi spesi per acquisire la Antonveneta nel 2006. Un sovrapprezzo sul quale indaga la magistratura. La sua caduta, però, è anche il frutto di un certo modo di fare banca. E suona da monito: il localismo sembrava un porto sicuro, invece diventa il tallone d’Achille. Lo dimostra l’elevato ammontare dei crediti dubbi.
Secondo le stime aggiornate della Deloitte, in Italia a fine 2011 erano in sofferenza crediti per circa 281 miliardi, un sesto del totale europeo che ammonta a 1.700 miliardi. L’ultimo rapporto trimestrale R&S Il Sole dipinge un quadro allarmante. I crediti deteriorati sono il 94 per cento del capitale netto nei primi 10 gruppi. In Mps superano quota 188 e nel caso del Banco popolare lo stesso rapporto è 155,5. Preoccupante la situazione della ligure Carige (138) e dell’emiliana Bper (124). Solo il 39,3 per cento dei prestiti a rischio è mediamente coperto da accantonamenti. Le banche migliori, da questo punto di vista, appaiono Unicredit e Intesa Sanpaolo, seguite dal Mps con il 39,2. Al contrario, Ubi, Banco popolare, Popolare di Sondrio, Carige e Popolare di Milano hanno un tasso di copertura piuttosto basso (dal 25 al 27 per cento).
Tra le principali cause di questo aumento abnorme c’è la modifica dei criteri di calcolo, già in vigore nel resto d’Europa e introdotta in Italia il 1° gennaio 2012. Un’esposizione scaduta oltre i 90 giorni va iscritta fra i crediti dubbi (prima il limite era di 180 giorni) e dev’essere parzialmente coperta. Ma è chiaro che la recessione ha inferto un pesante colpo di maglio. Anche perché è caduto su aziende poco produttive.
È il problema forse più grave delle banche nazionali, secondo l’Abi. Mentre i grandi gruppi europei e mondiali sono tornati a fare finanza come prima della crisi, prendendo alti rischi ma aumentando i profitti, in Italia la principale fonte di guadagno è la differenza tra tassi attivi e passivi. «La forbice non è mai stata così stretta» sostiene Nicastro, il margine è solo 1 punto. Il rapporto tra utili e capitale proprio nei principali otto gruppi bancari italiani è appena del 2,2 per cento, rispetto a 7 nella Ue. Un miglioramento è previsto per il 2013, ma se ci sarà la ripresa. Quanto all’aumento della raccolta, è conseguenza del fatto che i risparmiatori vendono titoli per tenersi liquidi. Un comportamento precauzionale classico nei periodi difficili.
Gli sportelli italiani sono ancora troppi e poco efficienti, mentre la rivoluzione telematica è solo agli inizi. Si annuncia una ristrutturazione tutt’altro che indolore per gli stessi dipendenti. «La sfida è riorganizzarci, come stiamo facendo in Unicredit» spiega Nicastro. L’Abi lamenta da tempo un peso fiscale eccessivo e uno svantaggio competitivo provocato dall’imposta Irap. L’aumento deciso dal governo Monti ha trovato uniti bancari e banchieri. E tuttavia un problema di capitale esiste.
Il rinvio nell’applicazione dei criteri detti Basilea III consente di guadagnare tempo e rafforzare il patrimonio senza patemi d’animo. Ma Onado teme che diventi un’illusoria scappatoia. «C’è bisogno, solo in Europa, di almeno 1.000 miliardi di euro» sostiene Foglia. «Anche in tal caso le aziende di credito avrebbero solo la metà del capitale di cui dispone in media un hedge fund per lo stesso grado di rischio. L’alternativa è tagliare gli impieghi di 30 mila miliardi e, ovviamente, non è possibile».
Il mercato, intanto, continua a penalizzare le banche italiane. I corsi di borsa sono circa la metà della media europea e un terzo di quella americana, fatto 100 il livello di agosto 2008 (cioè prima del ciclone Lehman). Finora le fondazioni sono servite da baluardo, ma adesso anche loro sentono i morsi della crisi. Se riparte un nuovo ciclo, le banche diventano facile preda e a quel punto non basteranno nemmeno le munizioni della Cassa depositi e prestiti.