varie, 4 gennaio 2013
IL PETROLIO ITALIANO PER IL FOGLIO DEI FOGLI DEL 7 GENNAIO 2013
Per pigrizia, incapacità e intralci burocratici l’Italia non sta sfruttando a pieno le proprie riserve di petrolio e gas. Nel 2012 dal nostro sottosuolo sono stati estratti 11 milioni di tonnellate di idrocarburi. Secondo la Strategia energetica nazionale (Sen) messa a punto dal Ministero dello Sviluppo Economico, investendo 15 miliardi di euro, in otto anni la produzione italiana sarebbe più che raddoppiata, fino ad arrivare a 24 milioni di tonnellate, «creando 25 mila posti di lavoro e facendo risparmiare sulla fattura energetica nazionale cinque miliardi di euro l’anno». [1]
In Italia però quasi tutte le richieste di trivellazione negli ultimi anni sono state bocciate. Ettore Livini: «L’assunto è semplice: madre natura ha nascosto nel sottosuolo della penisola un tesoro da almeno 100 miliardi di euro. Quasi 2,5 miliardi di barili di riserve potenziali di greggio (il nostro fabbisogno per quattro anni) intrappolato tra i calcari mesozoici di Basilicata, Calabria e Sicilia più 250 miliardi di metri cubi di gas dispersi tra Adriatico e Stretto di Messina. Siamo, potenzialmente, il quarto produttore europeo di idrocarburi». [2]
In un secolo e mezzo nel nostro territorio sono stati perforati settemila pozzi, di cui 800 ancora attivi. Secondo Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, «la produzione italiana potrebbe facilmente raddoppiare, proprio come prevede la Strategia energetica nazionale, semplicemente perforando dove già si sa che il petrolio c’è. Invece è tutto bloccato». [1]
Il recente annuncio della Shell e della Apennine Energy di voler verificare la presenza di idrocarburi sul fondale dello Ionio ha scatenato la protesta degli ambientalisti e degli amministratori locali. È nato anche il movimento “No triv” che si oppone alle trivellazioni nei mari italiani. Spiega Paolo Griseri: «In realtà le compagnie petrolifere che hanno presentato le richieste di indagine sostengono di non avere intenzione di turbare alcun equilibrio naturale. Anzi. Nella domanda parlano di indagini “a basso impatto ambientale”, che dureranno sei settimane e saranno eseguite con una tecnica non invasiva, quella dell’air gun, un getto d’aria che funziona con il principio dei sonar per indagare quel che si nasconde sotto i fondali. Ma è chiaro che il movimento di protesta non è spaventato dalle indagini quanto dall’eventualità che abbiano successo». [3]
L’indolenza petrolifera italiana vale un punto e più di Pil, stando agli studi realizzati dall’istituto Rie (Ricerche economiche e industriali). Eppure, in questi giorni di campagna elettorale e di proclami per risanare l’economia italiana, il tema dell’energia non trova spazio sui giornali (ad esclusione della Stampa, che ha piazzato a pagina 25 il pezzo di Grassia che denunciava lo stop alle trivelle). «Ma uno sfruttamento più mirato degli idrocarburi sarebbe un vero volano di crescita, per un paese ora costretto a dipendere dalle importazioni per oltre il 90% delle sue necessità di petrolio, dove siamo tributari da sempre, e di gas, dove invece abbiamo progressivamente abdicato ad un approvvigionamento interno che nel 1980 ci consentiva di coprire la metà di quel che ci serviva. Trent’anni fa tiravamo su venti miliardi di metri cubi di gas nostrano. Ora siamo a otto». [4]
A rendere più complicata la situazione ci ha pensato due anni fa l’allora ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo. Secondo il nuovo Codice ambientale, infatti, l’area di divieto per le esplorazioni e per le estrazioni passa, sempre e comunque, da 5 a 12 miglia dalle coste, ovvero una ventina di chilometri. Una misura innescata dal disastro petrolifero-ambientale del Golfo del Messico ma varata «senza alcuna giustificazione tecnica» hanno subito commentato gli esperti. [5]
La frenata italiana sugli idrocarburi «è francamente incomprensibile e unica al mondo» per Claudio Descalzi, presidente di Assomineraria e capo della divisione esplorazione e produzione dell’Eni. La norma taglia-permessi di due anni fa? Emotiva, errata nei presupposti, ingiustificata nelle motivazioni sia tecniche che ambientali. «Nel Golfo del Messico si estrae in acque profonde, in un contesto geologico non facilissimo da valutare. In Italia l’attività off-shore si svolge a profondità assai ridotta. In Adriatico si opera a una profondità media di appena 50 metri e si arriva al massimo a 150. E la presenza prevalente di gas esclude ogni rischio di contaminazione». [5]
Sembra che gli italiani soffrano della sindrome chiamata «nimby» in America, ovvero «not in my backyard» (non nel mio cortile). Per esempio la provincia di Novara, che ha in Trecate uno dei principali centri storici di estrazione del petrolio, ha scoperto una nuova zona di sviluppo potenziale a Carpignano, ma qui a giugno un referendum popolare ha respinto a schiacciante maggioranza (93%) la proposta dell’Eni di trivellare un pozzo. Luigi Grassia: «E ancora in quel di Novara la richiesta della britannica Northern Petroleum di estrarre greggio nei dintorni di Borgomanero ha provocato a fine dicembre la lettera di protesta di un gruppo di sindaci. E non si tratta di casi isolati: in tutta Italia appena si vede in giro un geologo che saggia il terreno fioriscono i comitati del no». [1]
Il caso poi della Basilicata, un piccolo sceiccato italiano. Qui nel 2012 sono stati estratti cinque degli 11 milioni di barili italiani. A questi si aggiungeranno nel 2016 i 50 mila barili al giorno della contestata concessione ai francesi della Total nel campo di Tempa Rossa. Ma negli anni scorsi l’Eni aveva già fatto sapere di voler aumentare a 130 mila barili la sua estrazione quotidiana. [3] Eppure nell’ultimo anno in Basilicata è stata bloccata addirittura la ricerca dei giacimenti. «E questo atto potrebbe essere incostituzionale da parte di una Regione» secondo Tabarelli di Nomisma Energia. [1]
Secondo il geologo Mario Tozzi «le compagnie vogliono trivellare in Italia solo perché da noi le royalties costano poco: solo il 10% contro, per esempio, il 75% che fa pagare la Nigeria. E poi ci sono siti di valore paesaggistico che sarebbero deturpati: le Tremiti, quale turista ci andrebbe più? E penso alla valle di Noto, all’offshore siciliano, alla stessa Lucania». [6]
Che in Italia si potrebbero fare molti più soldi con il petrolio se n’era accorta già la Us Army nel ’43. «Quando gli anfibi a stelle e strisce hanno gettato i loro pontoni sulla spiaggia di Anzio, dietro marines e corpi speciali sono sbarcate – armate fino ai denti di esplosivi e sensori geologici – due squadre sismiche incaricate di andare a caccia di idrocarburi. Arrivati alla Pianura Padana e piazzati i loro marchingegni sui terreni di Cortemaggiore, due passi da Piacenza, hanno fatto Bingo: la terra trasudava metano. E quando è terminato il conflitto, la Casa Bianca ha provato a imporre a Roma, tra le condizioni per la pace, la clausola “Po operation valley” una sorta di diritto perpetuo a traforare come un groviera il Nord Italia». [2]
Il resto è storia. L’Eni di Enrico Mattei è riuscita a mettersi di traverso. E gli oltre 100 pozzi petroliferi l’anno scavati nel Belpaese tra il 1949 e il 1964 hanno inaugurato l’era d’oro nero dell’energia tricolore e del cane a sei zampe. L’Italia è arrivata negli anni del boom ad avere settemila impianti attivi – oggi siamo sotto i mille – e a pompare dal suo sottosuolo quasi il 50% del gas di cui aveva bisogno per far marciare il boom del dopoguerra. [2]
A Eugenio Scalfari Mattei raccontò: «Io sono come Francis Drake, un corsaro al servizio del mio Paese. Mi hanno dato un compito che è quello di conquistare all’Italia un posto nell’industria del petrolio. Avete idea di quali problemi comporti un incarico di questo genere? Che tipo di avversari? Chi tocca il petrolio fa politica». [7]
Note: [1] Luigi Grassia, La Stampa 3/1; [2] Ettore Livini, la Repubblica 14/8/2012; [3] Paolo Griseri, la Repubblica 17/12/2012; [4] Federico Rendina, Il Sole 24 Ore 13/12/2012; [5] Federico Rendina, Il Sole 24 Ore 29/7/2012; [6] Lui. Gra., La Stampa 3/1; [7] Francesco Manacorda, La Stampa 26/10/2012.