Giuliano Aluffi, il Venerdì 4/1/2013, 4 gennaio 2013
COSÌ L’EVOLUZIONE CI PREDISPONE A ESSERE FELICI (MA NON TROPPO)
«L’uomo è nato per la felicità come l’uccello è nato per il volo». Da bambino, in Unione Sovietica, sentivo spesso citare questo aforisma di Maxim Gorky. Ma sembrava solo propaganda. Oggi vedo questa frase in una luce nuova: non più come uno slogan, ma come un’anticipazione dell’attuale conoscenza scientifica di come l’evoluzione ci abbia indirizzati verso la felicità». Così esordisce Shimon Edelman che, nato nell’allora Unione Sovietica da una famiglia ebrea, ha studiato in Israele e quindi si è trasferito negli Stati Uniti. Ingegnere elettronico approdato alla psicologia attraverso lo studio dell’intelligenza artificiale, oggi insegna psicologia cognitiva alla Cornell University di Ithaca. Con il saggio La felicità della ricerca (Codice), nelle librerie a fine gennaio, vuole trasmettere l’idea che la felicità sia un percorso più che un traguardo. E di questo parlerà a Roma il 19 gennaio, al Festival delle Scienze, quest’anno dedicato proprio alla felicità.
Lei sostiene che l’evoluzione ci ha indirizzati verso la felicità. In che senso?
«Immaginiamo che la nostra mente contenga una mappa, cioè una rappresentazione del mondo intorno a noi. A ogni oggetto, per esempio una mela, la mente assegna un valore a seconda della felicità che può darci. Il valore lo decidiamo guardando, sentendo, gustando, toccando e annusando. Questo fa sì che la mappa non sia piatta, ma dotata di avvallamenti e rilievi, che ci attraggono o respingono, quasi come se fossimo una biglia dentro un flipper. Anche i topolini nei labirinti seguono una mappa simile: il loro panorama dei valori, costruito in gran parte attraverso il fiuto, suggerisce loro la strada giusta verso il formaggio. Nel nostro labirinto le ricompense non sono dappertutto: la ricerca della felicità è la ricerca del percorso che può massimizzare il numero di ricompense».
Ma come si fa a capire qual è il percorso giusto?
«Come per tutti i viventi, la nostra sopravvivenza è legata alla capacità di anticipare quello che può accadere in una data situazione. Però il riscontro potrebbe arrivare molto avanti nel tempo. Così l’evoluzione ci ha dotato di un meccanismo motivazionale che, in un certo senso, porta il futuro nel presente: ci stimola cioè ad agire in direzione di esperienze piacevoli facendoci presentire le emozioni che proveremo quando le vivremo davvero. È come quando lo sciatore si stacca dallo skilift e pregusta la sensazione che proverà durante la discesa: non sta ancora scendendo, ma è già felice. Se poi c’è anche un elemento di sfida, meglio ancora: se siamo sciatori da "piste blu", ci troviamo davanti una "pista rossa" più facile della media e decidiamo di provarla, il senso piacevole di anticipazione da cui siamo pervasi premia la fiducia in noi stessi che stiamo dimostrando. In psicologia studiarne questo aspetto della felicità dagli anni Novanta. Mihály Csíkszentmihályi (psicologo della Claremont Graduate University in California) assegnò a dei soggetti un orologio che emetteva dei bip in vari momenti della giornata, pregandoli, quando ne udivano uno, di fermarsi a trascrivere che cosa stessero facendo in quel momento e quale fosse il loro grado di felicità. Alcuni risultati erano ovvi: tutti erano felici quando mangiavano o erano in buona compagnia. Ma ci fa una sorpresa: la felicità maggiore si registrava quando gli individui erano immersi in un compito impegnativo, ma alla loro portata. Csíkszentmihályi chiamò questo stato "flusso"».
Quindi siamo felici quando immaginiamo di stare per tagliare un traguardo.
«La scienza oggi ci conferma ciò che molti avevano intuito: pensare al futuro è più piacevole che arrivarci davvero. Lo psicologo George Loewenstein (della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, Pennsyluania, ndr) ha trovato che, se vinciamo una cena gratis in un magnifico ristorante e ci chiedono quando vogliamo andare, la maggior parte di noi, indipendentemente dagli impegni, non risponde oggi o domani, ma tra una settimana. La ragione profonda sarebbe che vogliamo più tempo per goderci il pensiero dei manicaretti che ci aspettano. In uno studio del 2002 gli psicologi Gabriele Oettingen e Doris Mayer, hanno invece chiesto ai soggetti che partecipavano all’esperimento di immaginarsi mentre chiedevano un appuntamento alla persona che più li attraeva. Coloro che si erano prodotti nelle fantasie più elaborate si sono rivelati anche quelli che, nei mesi seguenti, hanno messo in pratica di meno il proponimento. Sognare troppo a occhi aperti può renderci inerti».
E perché?
«Perché cercare di anticipare il futuro provoca già in sé sensazioni piacevoli. Aumenta infatti la nostra sensazione di controllo, sia su noi stessi – visto che dobbiamo distillare le nostre esperienze passate per individuare uno schema" che potrebbe ripetersi – sia sull’ambiente esterno, perché facendo previsioni non ci sentiamo in balìa degli eventi».
Ma perché la felicità, in genere, non dura?
«Dipende dalla nostra tendenza all’equilibrio. Mi spiego:
l’organismo tende a mantenere in equilibrio tutte le nostre funzioni. Dalla temperatura corporea, alla pressione, al livello di glucosio nel sangue. Allo stesso modo la psiche ha una spinta al riequilibrio: l’euforia, proprio come la depressione, non è uno stato normale. Anche qui io vedo l’impronta dell’evoluzione: le specie si autoregolano per attenuare la propria felicità quando questa eccede. Una specie che fosse sempre felice sopravvivrebbe poco perché sarebbe "premiata" anche se non sta attuando un comportamento che la avvantaggia. Così avviene il cosiddetto "adattamento edonico"».
Che sarebbe?
«Per natura ci adattiamo a ogni situazione: a quelle negative, ma, appunto, anche a quelle positive, al piacere. Gli psicologi Philip Brickman e Donald Campbell, già nel 1971 ci dipingevano come corridori su un tapis roulant: per quanto ci sforziamo, rimaniamo nello stesso punto. Pensiamo che un aumento di stipendio o, meglio ancora, vincere la lotteria ci cambierebbe la vita, invece, se succede, ci accorgiamo che l’euforia dopo un po’, al più qualche mese, diventa una moderata contentezza. Facciamo l’abitudine a qualsiasi situazione. Ci sono studi, per esempio quelli del Nobel Daniel Kahneman, che mostrano proprio questo».
Allora che si dovrebbe desiderare?
«Forse basterebbe non affidare la felicità a eventi eclatanti. E considerare invece traguardi più piccoli, meglio distribuiti nel tempo. Invece di fare sacrifici per un anno per pagarsi due settimane da nababbi a Bali, meglio scegliere dei viaggetti meno impegnativi e più frequenti. Anche perché gli obiettivi ambiziosi portano il rischio del perfezionismo».
Ed è un male?
«Più che un male è uno spreco: per stare bene non dovremmo cercare di fare le cose ottimamente, ma "abbastanza bene". La psicologia conferma infatti qualcosa che gli ingegneri sanno bene: l’ultimo 10 per cento di performance richiede il 90 per cento del tempo e della fatica».
Quanto aiuta invece la religiosità a sentirsi felici?
«Uno studio recente di Dan Ariely e Daniel Mochon suggerisce che chi ha una religione ma non la segue molto è meno felice di chi è ateo convinto. Sembra poi che, tra quelli che sono religiosi, a dare felicità sia la partecipazione ai riti comuni più che la preghiera in sé. Insomma il contributo della religione alla felicità sarebbe di tipo non tanto spirituale quanto "sociale". Lo conferma una ricerca dello psicologo Robert Putnam di Harvard: ha sondato tremila americani per capire quale aspetto della religione li rendesse più felici. Bene, se a dichiararsi "estremamente soddisfatto" era il 19 per cento di chi non frequentava i luoghi di culto, la percentuale saliva al 28 per cento tra quelli che lo facevano ogni settimana».
Ma si può essere davvero felici nella società dei consumi?
«Bisognerebbe ricordare che gli oggetti danno assuefazione prima delle esperienze, come un viaggio, o più tempo con la famiglia. Inoltre queste esperienze possiamo rigustarle con la memoria. Oltretutto, se affidiamo il raggiungimento della felicità a degli oggetti, possiamo ingannarci: quando desideriamo qualcosa, non sappiamo se, una volta che l’avremo ottenuta, ci piacerà davvero. Questo perché, nel nostro cervello, il sistema che regola ciò che desideriamo è distinto da quello che regola ciò che ci dà piacere. Per lo più i due sistemi concordano, ma non sempre. Nel caso delle dipendenze, per esempio, si continua a desiderare una cosa che non appaga mai».
Giuliano Aluffi