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 2013  gennaio 04 Venerdì calendario

DESTRA SULL’ORLO DI UNA CRISI DI NERVI


ROMA. Sarà che il domani doveva appartenere a loro, come cantavano negli anni Settanta gli Amici del vento, aedi di quella musica alternativa che esaltava ideali e valori della destra. Sarà che per la prima volta, dopo anni di fiera rivendicazione dell’identità, la destra italiana sembra aver smarrito la via. O forse è tutta colpa dello sdoganamento berlusconiano e della lunga traversata nelle infide praterie del potere. Perché non si può votare compatti in Parlamento fingendo di credere che Ruby sia la nipote di Mubarak e contemporaneamente innalzare il vessillo della moralità. Perché non si può andare a braccetto con uno come Berlusconi, e il suo modello sociale segnato dall’individualismo più sfrenato, e continuare a riempirsi la bocca con l’ormai logoro concetto di Comunità, con la «c» maiuscola, che è stato il vero totem della destra negli anni dell’Msi e della militanza dura e pura, ma oggi è diventato solo una parola vuota.
Insomma, la destra si guarda allo specchio e si scopre allo sbando. Divisa, confusa, disgregata in mille rivoli. Tutto e il contrario di tutto. Montiana e antieuropeista. Identitaria e in cerca di identità. Sociale e populista. E, in questa geografia confusa e in continuo movimento, si affacciano persino gli emuli del movimento estremista greco di Alba Dorata.
L’ultimo colpo – ammesso che sia l’ultimo – è venuto da Silvio Berlusconi. Servono volti nuovi e un nuovo partito di destra. È bastato questo per far esplodere gli ex aennini. Che sono schizzati in ordine sparso. Chi con Monti (il sindaco di Roma Gianni Alemanno), chi, come i colonnelli storici di An Maurizio Gasparri e Altero Matteoli, con il Cavaliere. Poi c’è chi, come Ignazio La Russa, dopo complesse trattative, ha trovato l’accordo con i «senza paura» di Giorgia Meloni (ovvero la destra sociale). Ed eccola la nuova creatura della destra: i Fratelli d’Italia. Una novità che ha lasciato freddi molti di quelli che volevano farla finita con La Russa e compagnia e che speravano in uno strappo più netto con il passato da parte della Meloni. Tutto questo mentre Gianfranco Fini, che vagheggiava di essere il leader di una nuova destra conservatrice e moderna, è relegato in un cono d’ombra e cerca, persino lui, una nuova casa politica.
«C’è una destra moderata che guarda a Monti, una contro la tecnocrazia che non trova una rappresentanza unica ma si disperde tra partitini e astensionismo. D’altronde, la destra non ha saputo cavalcare l’opportunità Berlusconi e si è erosa da sola. Un fallimento che è iniziato con An, che non ha saputo unire le varie anime della destra» ragiona Marcello Veneziani, intellettuale e giornalista, anche lui caduto in tentazione di poter salvare il salvabile, con il suo progetto Itaca, che punta a «mettere insieme le varie destre italiane», per ora senza successo.
Il gioco del momento? Individuare l’esatto momento in cui la fine è iniziata. Per alcuni è il 1995, anno di fondazione di Alleanza nazionale, per altri il 2009, anno di nascita del Pdl. Di quest’ultima data è convinto Alessandro Campi, già a capo della fondazione finianana Farefuturo e adesso alla guida di La rivista politica. «La destra si era legittimata a livello pubblico, erano stati rimossi i tabù. Poi, però, è stata vittima dei suoi stessi arcaismi, a partire dalla mistica del capo assoluto. Si sono affidati a un leader come Berlusconi, che ne ha ucciso l’autonomia politica, non sono stati in grado di fare un vero e proprio salto verso una dialettica democratica, consegnandosi agli umori di un anziano signore». E la mistica della Comunità? «Dietro, in realtà, c’era un individualismo radicale. Fini e i colonnelli si sono scannati. Il loro è stato un collasso emotivo, sono crollati davanti alle dinamiche del potere. Il caso di Alemanno è esemplare: hai in mano Roma, la città simbolo, e che cosa fai? Ti limiti a piazzare gli amici nei posti di potere?».
Nel dissolvimento generale spuntano ovunque ex colonnelli, caporali e soldati semplici che provano a rimettere insieme quello che resta di un’armata alla disfatta. Prendiamo il 16 dicembre a Roma. A due passi da San Pietro, Giorgia Meloni e Guido Crosetto radunano le truppe. Va in scena la cosiddetta destra sociale. Quelli che non vogliono Monti, che detestano la tecnocrazia, che oggi non vogliono Berlusconi premier (dopo averlo votato per anni) e che sono pronti allo strappo con il Pdl. Molti giovani in platea con un po’ di nostalgia: d’obbligo il saluto del legionario, dove non ci si dà la mano ma l’avambraccio. Tengono banco la condanna e la rabbia nei confronti di un’intera classe dirigente. «Abbiamo abdicato davanti al Cavaliere perché ci portava i voti» accusa Antonio Pasquini, 34 anni, consigliere comunale a Lecco, alle spalle una militanza nel Fronte della Gioventù. «Dalla sera alla mattina, siamo passati dai banchetti e i volatini alle stanze del potere e non abbiamo retto. Abbiamo una classe dirigente scollegata: sembrano Hitler nel bunker. È il territorio il vero patrimonio da cui ricominciare». Ragiona Alessandro Tomasi, presidente toscano della Giovane Italia: «Che abbiamo fatto in questi anni in un partito leggero e senza sezioni come il Pdl? Abbiamo riprodotto il nostro essere di destra, il nostro habitat, mettendo in piedi molte associazioni culturali che ci hanno permesso di fare aggregazione e militanza». Drastico Alessandro Amorese, consigliere comunale Pdl a Massa: «Lo schema destra-sinistra è superato e comunque l’ambiente della destra è ormai plurale e spesso non conciliabile. La via è quella del Comunitarismo».
In questo momento, fanno capo a Giorgia Meloni una serie di movimenti piccoli e grandi, antichi e recentissimi. Un fiume carsico che va dal Fuori di Galeazzo Bignami, alla Rete dei Patrioti. Per capire il clima basta ascoltare l’assessore regionale veneto Donazzan: «Pdl? Penoso. Delirante. Lontano. Ecco l’acronimo. È stato un fallimento totale, per questo volevamo fare le primarie, per dire basta alle Minetti, ai Fiorito, ai Cosentino, alle feste, alle tessere false».
Da Nord a Sud, le cose non cambiano. Stessa voglia di farla finita con Berlusconi e compagnia, e mille voci diverse su come uscire dalla crisi. Mauro La Mantia, 32 anni, guida la Giovane Italia siciliana. È cresciuto con gli articoli di Giano Accame e vede spazio per parole d’ordine come sovranità nazionale («che il Msi ha teorizzato per 50 anni») che «possono superare i confini della destra»: «Penso al movimento dei forconi, che è fallito perché non ha trovato un soggetto politico che ha saputo raccogliere quelle richieste».
Campi però è pessimista: «Mi pare un’inutile chiamata alle armi. Che vogliono fare? L’Msi del terzo millennio? An era la casa politica della destra ed è fallita. All’elettore di destra non resta che aspettare una nuova generazione». Stando così le cose, il domani arriverà. Anche se non si capisce bene chi troverà ad attenderlo.

Matteo Tonelli