Cesare Fiumi, Sette 4/1/2013, 4 gennaio 2013
LÀ DOVE LA TERRA SCOTTA
LÀ DOVE LA TERRA SCOTTA–
L’acqua vien giù a secchiate sulle serre di San Bruno, fino a che il vento soffia via il cielo grigio sceso giù fino in paese ad annebbiarlo. È solo allora che la montagna si mostra: chiazzata di neve e avvolta da quelli che paiono gli ultimi cumulonembi sfilacciati che stentano a risalire la costa boschiva. Nuvole che invece non se ne andranno, come non se ne sono mai andate da secoli e secoli, estate e inverno, col brutto tempo e pure quando splende il sole. Nuvole di fumo denso sbattute qua e là dalle folate. Nuvole profumate di faggio e di leccio che bruciano giorno e notte – in ciocchi e fascine, dentro caldaie di terra – pure a Ferragosto e per Natale, prosciugandosi fino a diventare carbone vegetale. Secondo un processo tradizionale, incerto, faticoso e affascinante che si ripete dalla notte dei tempi, da quando i Fenici salivano fin quassù dalla costa per farsi da navigatori carbonai. Da uomini d’acqua a gente di fuoco, secondo i principi ancestrali.
Stanno quassù, sopra Serra San Bruno, provincia calabra di Vibo, duemila anni dopo, gli ultimi carbonai d’Italia. Gli adepti di questa formidabile setta di tagliaboschi e cuochi del legno, l’ultima “Carboneria” che tramandandosi di padre in figlio sogna il suo risorgimento: la rinascita e il riconoscimento di un mestiere che è come un’antica magia, per via della quinta quasi dantesca – anche se la Certosa murata giù in basso, e poi il fango e i pagliai di legno hanno i tratti de Il nome della Rosa – e per la certosina pazienza di chi, guardiano del fuoco, passa di vulcano in vulcano, di cratere in cratere, a “sentire” la brace che, un tempo, riscaldava il mondo e oggi diventa soltanto, quando canta scrocchiando, aroma di barbecue o cibo per i forni da pizzeria.
Si chiamano Salvatore e Bruno, Pasquale e Bruno, e poi ancora Bruno – a Serra, in omaggio alla santità monacale, i Bruno si sprecano – gli uomini in nero: questi formidabili Pan, bruniti di fuliggine, che saltellano nelle radure del bosco tra le cataste di legna e i sacchi di quella che, rinsecchita, s’è fatta carbone. «Il lavoro è duro ma mi piace», sorride un Bruno che ha cinque figlie femmine, la più grande all’ultimo anno di Istituto Alberghiero, e che ormai fa il carbonaio da solo. «Nei primi tempi, lavorava qui anche mia moglie, fino a quando non ha cominciato a fare la madre. Si guadagna, a percentuale, quanto basta per vivere qui a Serra, dove la birra costa 3 euro e per mangiare si spende poco. Chi se n’è andato, anche solo sulla costa, e sono tanti della mia età, magari adesso è pure disoccupato e la vita lì costa cara».
Maledette diavolerie. Pasquale, suo nipote, è un Efesto di nemmeno vent’anni, il volto avvampato dal fuoco mentre sta piantato sulla vetta della cupola di farina scura – impasto di terra e cenere – come una stele bruna che si illumina in cima. Come un grande fiammifero annerito con la testa ancora rosseggiante, perché guardando giù nello sfiatatoio, per capire se il camino vegetale tira a dovere, le fiamme fanno da riflettore sul suo sorriso ancora ragazzino che luccica più del brillantino che il giovane carbonaio porta sul lobo sinistro.
Ne è passato di tempo, esattamente mezzo secolo, da quando Saverio Strati raccontava i ragazzi Carbonai di Calabria che, «nelle giornate nere d’inverno, andavano in giro per le case in cerca di fichi, di pere secche, scalzi e sbrindellati». E che «giocavano tra loro, giacché gli altri bambini li respingevano». Mentre gli anziani dicevano ai giovani: «Per voi, se avete testa, ci sarà un’altra via. Partite anche voi come gli altri. Tanto a fare il carbonaio non ne vale la pena. Non ti dà niente; e fra pochi anni, con tutte queste diavolerie che inventano e che portano anche qui, nessuno comprerà il carbone».
Fascino da fascina. Quella generazione di anziani parlava a Salvatore, il padre di Pasquale, che ha fatto e fa il carbonaio e che ha portato il figlio in cima allo scarazzu, là dove la terra scotta, che aveva le brache corte. Neanche Pasquale è partito e non ne ha nessuna intenzione in futuro. «A Serra sto bene. E mi piace fare il carbone. Dopo la terza media ho smesso di studiare per lavorare qui nel bosco e non mi lamento. Una volta mio padre e zio Bruno vivevano in quel catoio lassù che aveva la terra per pavimento e neanche il bagno. E portavano la legna a piedi o con i muli. Adesso si arriva su con l’auto e la sera si dorme al caldo, giù in paese, salvo fare un salto di notte per vedere se la cottura è regolare. Ma, per fortuna, della fatica di allora oggi c’è da dimenticarsi».
Le guance nere. La fronte pure, almeno quel po’ che esce da sotto una bandana e un cappuccio di lana. Il fumo che a tratti lo avvolge di nero fino a farlo scomparire. Pasquale non ha nulla dei ragazzi che erano i suoi nonni e genitori. Sembra piuttosto un fochista kafkiano contento d’aver trovato la sua America quassù sulle Serre, con vista sul paese, 7mila abitanti, e la sua Certosa incantata e sprangata che rilascia anch’essa incensi odorosi, fino a stordire l’aria e a impregnarne la terra, le case e le cose, mentre qualche goccia di pioggia annaffia i profumi fino a farli esplodere nelle nari.
Altro che respinto dai coetanei e, soprattutto, dalle coetanee. Fa Pasquale: «Non me lo immaginavo, ma essere un carbonaio ha i suoi vantaggi. Aiuta pure con le ragazze fare un mestiere così particolare». E allora te lo immagini – lui, che ghigna allegro mentre racconta – quando risale il bosco serale in dolce compagnia per controllare se il fuoco langue, con l’odore del faggio o del leccio a fare da vecchio incensiere mentre il fumo, complice, avvolge e protegge la scena.
Saggezza popolare. Sarà pure cambiata la vita del carbonaio che non abita più il catoio umido, salvo in qualche sera d’estate quando lo scarazzu fa le bizze, ma è ancora dura, durissima, come poche altre. Perciò la fanno in pochi, ormai. Sono una ventina i carbonai di Serra San Bruno, divisi su tre grandi aree di forno, ciascuna capace di ospitare una trentina di piazze terrose dove allestire, di volta in volta, la macchina infernale, «la bestia di legno che mugghia e crepita», come raccontava Strati, «all’inizio costretta a respirare con la sola bocca». Prima che i carbonai, con legni aguzzi che paiono picche, non comincino a forare la base incenerita che ne costituisce la scorza, la pelle polverosa, facendo sembrare la tonda cupola infuocata uno scolapasta rovesciato. Dal quale, anziché l’acqua, esce il fumo. «Non fumo, vapore», precisa Salvatore. «Il fumo è questo», e mostra la sigaretta. «Che non fa bene, lo so, mentre i vapori sono curativi: il nonno, quando qualcuno di noi bambini si ammalava di pertosse, lo portava qui a respirare e subito gli passava». Le carbonaie di Serra come le terme di Lamezia: la terra e i suoi sfiati come salutare saggezza popolare.
Stasera i pagliai di legno accesi nelle piazze della macchia di Bruno Vallelunga – il datore di lavoro di Bruno, Pasquale e Salvatore – sono in tutto dieci. E ciascuno brucia 550 quintali di legna disposta a raggiera: i rami più grandi e i pezzi di tronco sistemati in basso mentre fascine mano a mano più snelle stanno all’interno e sulla sommità della collina di legno che è alta tre metri per un diametro di quindici. Ci vogliono circa venti giorni per la cottura, se la pioggia o la neve non complicano la vita. E se lo scarazzu sarà stato ben preparato, regalerà una cinquantina di quintali di carbone per piazza.
«Non si guadagna più tanto e ormai stanno in piedi solo le piccole aziende come questa, dove io penso alla carbonaia e mio figlio trasporta il materiale col camion. Dovrei chiudere, ma non me la sento: do ancora lavoro a cinque-sei famiglie. Altri tempi quando partivo con l’autocarro e portavo il carbone anche su al Nord: oggi è solo un prodotto di qualità per i ristoranti, anche se tanti preferiscono quello mediocre che arriva dalla Romania. I nostri mercati? La Campania, la Sicilia ma soprattutto la Puglia, anche se una volta arrivavi a Calimera, nel Leccese, e c’erano ventidue rivenditori di carbone e oggi non ne è rimasto nessuno».
Ti chiedi se finirà prima il legno del bosco o il mestiere di carbonaio, vedendo quanto è salito il fronte dei faggi, ché i monti attorno portano ormai la sfumatura alta e poco frondosa. «Per fortuna la Forestale fa buona guardia. Assegna i lotti di taglio e subito dopo provvede al rimboschimento», chiarisce Bruno. Che stavolta è Bruno Tripodi, fotografo serrese, che di questa terra è una memoria, avendone documentato ogni segreto: dalle preghiere dei monaci alle cerimonie funebri dentro la Certosa, fino alla vita quotidiana dei carbonai («Che se non ci fossero più, Serra non sarebbe più Serra»), tanto che ha appena finito di lavorare a un libro di immagini, Carbonai. Un antico mestiere nella sacra valle delle Serre (con prefazione di Ettore Mo), che attende solo una casa editrice, anche locale.
Fumata azzurra. È lui che traduce il dialetto, che ogni tanto ti spiazza, di papà Salvatore e di zio Bruno quando giurano che «ogni cratere è come quando fanno il Papa, ma a rovescio: fino a quando il vapore è bianco, c’è da lavorare. Ma quando esce azzurro, allora vuol dire che la lunga cottura è finita». E lo si può annaffiare con i 1.200 litri d’acqua necessari allo spegnimento che dura due giorni: litri che quei due, in una stagione ancora senza tubature, dovevano portare ogni volta su dal paese.
Intanto ha ripreso a piovere e la sera è venuta giù di colpo. Serra è già un presepe di luci fioche, ma loro non si danno pace, punzecchiando ancora i piccoli vulcani. Pronti, dinnanzi allo stupore per una vita così ostile, a ricordare: «Rispetto agli altri, come dicevano i nostri vecchi, muoiono dopo, i carbonai». Di più, se duemila anni hanno detto il vero, non moriranno mai.
Cesare Fiumi