Enrica Brocardo, Vanity Fair 2/1/2013, 2 gennaio 2013
VORREI ESSERE LA SHARAPOVA
[Valeria Solarino]
Ha appena finito un cortometraggio con Michael Haussman, il regista dei video di Madonna, Britney Spears, Jennifer Lopez, e puoi percepire l’entusiasmo dietro quel contegno da timida che le è rimasto addosso nonostante dieci anni di carriera da attrice.
«Racconta il confine sottile tra realtà e finzione nella recitazione», spiega Valeria Solarino. «Mettiamo, per esempio, che interpreti una storia d’amore: è finzione, però a volte nasce qualcosa di vero».
Nel suo caso, qualcosa di vero è nato con il regista Giovanni Veronesi che proprio dieci anni fa – nel 2003 del suo debutto – la volle in Che ne sarà di noi, e che da allora è il suo compagno. Un rapporto vissuto con una riservatezza che potremmo definire torinese, visto che è a Torino che la Solarino (nata in Venezuela) è cresciuta fin da bambina. E ci torna spesso, anche ora che fa base a Roma. Proprio a Torino ci incontriamo, in un hotel dove si sta preparando per l’inaugurazione del negozio di Twin-Set: trucco, capelli e vestitini luccicanti da festa dell’ultimo dell’anno.
Sa cantare?
«Magari. Sarebbe il sogno della mia vita: essere una pop star, di quelle che cantano e ballano. Peccato che non sappia fare nessuna delle due cose».
Però fa l’attrice. Al cinema e anche a teatro. E lo spettacolo che ha portato in scena lo scorso anno, La signorina Giulia di Strindberg, è anche andato in onda in Tv a dicembre.
«Su Rai 5. Per sperimentare le riprese in 3D. Una tecnologia che potrebbe essere utile per riportare il teatro in Tv. Il palco prevede la tridimensionalità: lo schermo a due dimensioni lo penalizza».
Si tratta di un dramma complesso che affronta, fra i vari temi, quello delle differenze di classe. Da questo punto di vista, Torino è una città molto conservatrice. Lei come l’ha vissuta?
«Avevo tre anni e mezzo quando ci siamo trasferiti qui. Ho sempre vissuto in quartieri piuttosto popolari, e quindi secondo me più sani. Poi ho sempre fatto sport, e questo ti forma moltissimo. Giocavo a pallacanestro a livello agonistico, e siccome mi allenavo tutti i giorni, fino a vent’anni non ho avuto frequentazioni al di fuori di quell’ambiente».
Perché decise di smettere?
«Per studiare recitazione. La scuola dello Stabile di Torino mi impegnava dalle nove del mattino alle sei di sera».
La più bella partita della sua vita?
«Sarà romantico, ma mi viene da dire l’ultima. Il mio allenatore era arrabbiato per la mia decisione di lasciare e, contrariamente a quanto accadeva di solito, non mi fece giocare fin dall’inizio. Ma stavamo perdendo, e io ero molto brava in difesa, così a un certo punto mi chiese di entrare e di marcare a uomo una giocatrice. Credo che alla fine abbiamo perso comunque, ma di poco. Mi ricordo il suo sguardo, come a dire: “Avrei dovuto metterti in campo prima”».
Le è pesato rinunciare?
«No. Avevo trovato qualcosa che mi piaceva di più».
Prima ha lasciato gli studi di Filosofia per il basket, poi il basket per il teatro.
«E adesso ho il tennis. Sono passata da zero a quattro allenamenti a settimana. È successo dopo aver letto il libro di Agassi (Open. La mia storia, ndr). Mi sono comprata l’attrezzatura, un mucchio di completini. Però, uso i pantaloncini da pallacanestro. I completi seri, quelli tutti abbinati, li tengo nell’armadio. Li metterò quando sarò brava».
Scusi?
«Vedere una schiappa tutta vestita a puntino fa ridere».
Altre passioni?
«In realtà il tennis è un’ossessione. Mi alleno, lo guardo in Tv. Per adesso è tutto. E meno male, se no vado fuori di testa».
La politica non le interessa?
«Non riesco a trovarla appassionante. Non c’è nessuno che mi venga voglia di sostenere. Lo dico con rammarico».
Magari un giorno scopre che invece le piace, e la troviamo candidata a qualche elezione.
«Impossibile. Ho troppo rispetto per la professione. Credo che politico lo debba diventare solo chi ha la vocazione. Per me dovrebbe essere un’occupazione per pochi, i più saggi, quelli pronti a sacrificare la propria vita al bene comune. Si tratta di un lavoro di enorme responsabilità, una cosa seria. Non puoi mica avere la passione per la pallacanestro, la recitazione e, infine, per la politica. E poi devi essere puro, senza scheletri nell’armadio, e io qualcuno ne ho».
Lei ha fatto una dichiarazione che mi ha colpito. Ha detto: «Sono atea e anticlericale». Non capita spesso di sentire qualcuno esprimersi in modo così netto.
«Fa strano, lo so. Ma, in fondo, anche dire: “Sono credente” è un’affermazione pesante come un macigno».
E le ragioni dell’anticlericalismo?
«Be’, la Chiesa ha fatto parecchi danni. Inoltre, non credo che la spiritualità abbia bisogno di un apparato, che spesso è più politico che altro».
Dopo Che ne sarà di noi, il film che le ha fatto conoscere il suo compagno, aveva detto: «Mai più un film insieme».
«E, invece, è successo. In Italians, perché non trovava un’altra ragazza adatta. E poi in Manuale d’amore 3».
Ma che cosa c’è di male a lavorare in coppia? Lo fanno in tanti.
«Non voglio che diventi scontato che nel cast ci debba essere anch’io. Lui deve essere libero quando scrive una storia. Non deve pensare: “Ho un’attrice in casa, bisogna che crei un ruolo apposta”. “Non voglio lavorare con te” è un modo per dire: “Sentiti libero”. Se capita, va bene».
Il film più bello della sua vita?
«Valzer (di Salvatore Maira, del 2007, ndr). Non lo ha visto quasi nessuno: uscì in tre, quattro copie. Un unico piano sequenza, il solo film al mondo girato senza montaggio. Tecnicamente era molto difficile. Ho imparato tanto».
Insomma, dal tennis al cinema, a lei piace soprattutto studiare.
«Da poco ho scoperto una frase di Marilyn Monroe che trovo meravigliosa: “Lascio agli altri la convinzione di essere migliori, e tengo per me la certezza che si può sempre migliorare”».