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 2013  gennaio 02 Mercoledì calendario

NOI CHE ERAVAMO I BAMBINI DELLA SETTA


Ciao, sono stata una bambina della setta, volevo raccontarti la mia storia».
«Come ti chiami? Possiamo sentirci al telefono?».
«No, non ti dirò nulla di me. Sentiamoci in chat».

La paura come non l’ho mai conosciuta la incontro nelle parole di Amelie, il suo nickname. All’inizio della nostra conversazione teme che io sia qualcuno della setta alla ricerca di informazioni, oppure con il compito di riportarla da dove è riuscita a scappare. Per la prima mezz’ora indaga su di me. Fa mille domande, scrive e poi cancella. Calcola tutto, come fosse un animale in pericolo nel mirino di un fucile di precisione. Poi inizia a parlare, a rispondere, ma la tensione la percepirò per tutta la conversazione, fino alla fine, quando mi dice: «Se hai capito qualcosa di me, da dove vengo, dove vivo, giurami che non lo scriverai. Giuralo».
Amelie, a otto anni, è entrata in una setta molto simile a quella raccontata nel film di Paul Thomas Anderson, The Master: «Credono anche loro nella reincarnazione, negli alieni, nelle infinite possibilità dell’essere umano».

«Facevamo parte degli uomini e delle donne destinati a raggiungere i vertici più alti del culto», racconta invece al telefono Michael, anche lui ex affiliato dell’organizzazione. «Nessuno di noi si espone per timore di essere rintracciato. Con me l’hanno fatto, mi hanno perseguitato, ma mi sento in dovere di raccontare».

I membri della setta dedicano tutta la loro vita al culto, vivono insieme e lavorano 12, 14 ore al giorno, ricevendo una paga settimanale che, nei casi migliori, arriva ai 100 dollari. Non guardano né Tv né Internet, sono esclusi dal mondo «reale».
Per entrare a tutti gli effetti nell’organizzazione si deve firmare un contratto, i capi dicono che si tratta solo di un atto simbolico, «ma uscire è veramente difficile», dice ancora Amelie. E allora, perché ci entri? Quando hai dieci anni e scopri che la tua mamma ti lascerà e andrà in America per far parte di una setta, l’unica cosa che vuoi è andare con lei. «Volevo starle vicino a tutti i costi », racconta Amelie. «Così, nel 2000, abbiamo lasciato l’Italia per Los Angeles». Non immaginava certo, allora, che 4 anni dopo avrebbe tentato il suicidio.

Al suo arrivo Amelie, priva delle più elementari conoscenze della lingua inglese, venne subito divisa dalla madre – che doveva seguire un training per diventare la figura incaricata di fare colloqui con i fedeli – e mandata fuori Los Angeles con i piccoli dell’associazione. «Vivevo con altri 30 bambini, pulivamo, cucinavamo, lavoravamo. Andavamo a scuola solo la domenica. Piangevo ogni notte, mi sentivo sola. Venivo spesso punita perché, secondo i capi, non avevo un comportamento da “bravo cadetto”».
A 11 anni, dopo aver scoperto che la madre sarebbe stata trasferita in Florida, pur di seguirla lasciò i cadetti e passò alla sezione degli adulti: «Ho firmato il famoso contratto, e sono partita. Cambiavo mansioni in continuazione: rispondevo al telefono, catalogavo file, seguivo i fedeli che facevano gli incontri per raggiungere livelli di conoscenza superiore».
La sua situazione peggiorò. Nonostante fosse poco più di una bambina, veniva spesso richiamata per il suo comportamento «inadeguato». All’interno dell’organizzazione c’è infatti un ufficio preposto a verificare la condotta dei seguaci, e autorizzato a usare le punizioni per ottenere obbedienza e controllo. «Dicevo al mio capo che non ero d’accordo e mi chiudevano per ore in uno stanzino».
Furono tre anni difficilissimi: «Non avevo nemmeno un amico con cui condividere il mio dolore. Nella setta non ti puoi fidare di nessuno, perché tra le regole c’è quella di riportare ai capi qualsiasi pensiero o comportamento degli altri seguaci non conforme alle regole. Bastava un ritardo, un “no”, ed eri in isolamento».
A 14 anni fu schiaffeggiata da un superiore che l’aveva scoperta a mangiare un gelato. «Ho perso il controllo, iniziato a tirare pugni e calci. Mi hanno chiuso nel loro ufficio, mi hanno interrogata».
Uscì distrutta da quella stanza, proprio la sera in cui tutti erano riuniti a leggere gli scritti del fondatore. Approfittando del momento, Amelie si chiuse in bagno, dove aveva nascosto uno scalpello. «Avevo deciso di farla finita. Ho iniziato a colpirmi i polsi, forte, ripetutamente. Ho aspettato per ore, mentre il sangue usciva. Pensavo alla mamma, a quanto la amavo, mi spiaceva per lei, ma non potevo più sopportare quella situazione».
Non morì: le ferite non erano abbastanza profonde. La trovarono, la medicarono, chiamarono la madre. Il giorno dopo, di nascosto da tutti, misero entrambe su un aereo e le rimandarono in Italia, a casa. Amelie non poteva essere più felice. «Io e mia madre con la setta avevamo chiuso».
Ma quasi dieci anni dopo, non si sente ancora salva: «Non sono mai stata una vera fedele, non credevo agli alieni né alla reincarnazione. Credevo solo alla paura, e ci credo ancora. Ho addosso il terrore che possano riprendersi la mia vita».

Quando hai 13 anni, e una settimana dopo il suicidio di tua madre i capi della setta bussano alla porta e ti dicono che si è uccisa perché non sopportava l’idea di non aver raggiunto i massimi livelli del culto, può essere che tu ci creda. Può essere anche che sette giorni dopo firmi il contratto per raggiungere quei risultati, per non ucciderti come ha fatto lei. Inizia così la storia di Michael, canadese, figlio di seguaci. «Promisero di farmi girare il mondo, di pagarmi un’istruzione, cure mediche. Io ci credetti: lasciai mio padre, e partii».
Michael andò prima in Inghilterra, dove ricoprì ruoli di responsabilità nella sicurezza interna. Lavorava 14 ore al giorno. «Ero stanco, senza forze. E la promessa di cure mediche si rivelò una menzogna. Non volevano nemmeno che andassi dal dentista: un giorno mi tolsi un dente da solo, e venni punito per essermi fatto vedere col sangue in bocca».
Michael capì che diventare il migliore dei seguaci era l’unico modo per sopravvivere all’interno della setta. «Mi trasformai nel mostro che volevano. Due anni dopo, quando ero appena quindicenne, mi mandarono negli Stati Uniti falsificando la firma di mio padre. Vedevano in me un potenziale capo, e volevano che facessi esperienza nel Paese che era la culla dell’organizzazione».
In poco tempo diventò un pezzo grosso del tempio di Los Angeles. «Mi occupavo, tra le varie cose, del comportamento dei seguaci. Mi capitava spesso di punire persone molto più grandi di me. Bastava che criticassero una scelta dei capi, o che facessero ritardo al lavoro, e io mi vendicavo: li separavo dai loro figli, li costringevo a periodi di isolamento totale».
C’è qualcosa che non riesce a perdonarsi. Mentre me ne parla deve fermarsi, la sua voce forte si fa molto simile a quella tremante di Amelie: «Ho coperto abusi sessuali sui bambini. E ho punito le piccole vittime dicendo che era colpa loro, che avevano fatto qualcosa perché capitasse. Non so se credevo davvero a quello che dicevo, so che avevo bisogno di crederci. Quel che succedeva nella setta doveva rimanere nella setta».
A 18 anni Michael decise di scappare, provò svariate volte, finché ci riuscì e tornò in Francia, dal padre. La setta lo rintracciò, lo rivoleva indietro, lui continuava a cambiare indirizzo, persino Paese. Finalmente la setta perse le sue tracce, si rassegnò, lo lasciò in pace. Oggi vive negli Stati Uniti con la fidanzata: sta cercando di rifarsi una vita. Ma fatica a addormentarsi: il pensiero di quei bambini lo tormenta.