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 2013  gennaio 04 Venerdì calendario

QUANDO AL QUIRINALE SI DIVIDEVANO LE PERE A MET

[Lo raccontava lo scrittore Ennio Flaiano, ospite del presidente Einaudi a una cena ufficiale. In quello stesso anno De Gasperi vinse le elezioni e Togliatti riuscì a sopravvivere a un attentato] –
I
l 2 aprile 1948, il Congresso degli Sati Uniti approva il cosiddetto Piano Marshall, con aiuti all’Europa per cinque miliardi e 300 milioni di dollari. Prende corpo l’anno prima. 5 giugno 1947, intervento del segretario di Stato all’università di Harvard: Marshall parla della necessità di elaborare un nuovo piano di aiuti per l’Europa. Il progetto è firmato anche da Dean Acheson, vice di Marshall al Dipartimento di Stato. Grande supervisore fu Harry Truman. L’inverno del 1946-47 era stato particolarmente rigido: le riserve in dollari nei Paesi europei stavano esaurendosi, rendendo difficile il rifornirsi di merci negli Stati Uniti. 19 giugno: l’Italia annuncia formalmente la sua intenzione di collaborare pienamente al Piano Marshall per gli aiuti all’Europa, con una nota consegnata all’ambasciatore Tarchiani al Dipartimento di Stato. Nel frattempo, Marshall aveva negato gli aiuti se al governo fossero restate le sinistre. 2 aprile 1948, il Piano viene approvato dal Congresso degli Stati Uniti: prevede aiuti per cinque miliardi e trecento milioni di dollari. Il 5 aprile il Piano entra in vigore. 3 luglio 1948, ore 20.30: comunicato dell’Ansa: «Washington 3 luglio, l’amministratore dell’Erp (Piano Ricostruzione Europa) autorizza gli acquisti per l’Italia: sono farina per 1.017.269 dollari, legname 2.300.000 dollari, carbone 4.060.000 dollari». A piazza Duomo a Milano arrivano i primi camion della War Relief Services che si appoggiano a un Ente di Assistenza di Sua Santità Pio XII. Il cardinale Schuster gli va incontro. Sedici giorni dopo è il 18 aprile del 1948, il giorno delle elezioni per il primo Parlamento dell’Italia repubblicana. Fino ad allora al governo erano state le forze politiche antifasciste, in continuità con la Resistenza e la fine della guerra di liberazione. Poi c’era stata la svolta di De Gasperi, l’uscita dal governo di socialisti e comunisti, nonché la posizione netta degli Stati Uniti resa concreta dagli aiuti del Piano Marshall. Per cui si va al voto nel segno del derby infuocato, quel bipolarismo tanto caro a noi italiani. Nella fase storica del Coppi contro Bartali, si deve decidere fra Togliatti e De Gasperi. E nella migliore tradizione delle discussioni al confine con il Bar dello Sport, ci si schiera ovunque, con una partecipazione mai più raggiunta nella storia dell’Italia repubblicana.

Le elezioni. Il derby Togliatti/De Gasperi verrà stravinto da De Gasperi, con l’appoggio esterno degli Stati Uniti d’America e con l’appoggio interno delle gerarchie ecclesiastiche. A votare va oltre il 92% degli aventi diritto, donne comprese. Anche questa è una prima volta: al voto sono ammesse anche le donne. Come dire: fino a poco più di sessanta anni fa, le italiane non erano un soggetto politico. E, forse, non arrivavano nemmeno a essere oggetto della politica: per la politica dell’immediato dopoguerra, nemmeno donna-oggetto. Il risultati sono resi noti dalla radio solo quattro giorni dopo, il 22 aprile. Perry Como cantava: «Chi baba, chi baba, chi baba / my bambino go to sleep» e la radio annunciava: «Splendido risultato del 18 aprile, ventisette milioni di votanti su ventinove milioni di iscritti. Votazione per la Camera dei Deputati. Fronte Democratico Popolare circa otto milioni di voti, pari al trenta e sette per cento. Unione Socialista circa un milione e novecentomila pari al sette e uno per cento. Repubblicani, 2,5%. Msi 2%. Blocco Nazionale 3,8%. La maggioranza assoluta è andata alla Democrazia Cristiana con circa 12.700.000 voti pari al 48,7%. La Democrazia Cristiana avrà al Parlamento 307 deputati». L’annunciatore riferiva approssimando e parlava ancora una volta nello stile della radio di qualche anno prima e sottolineava, enfatizzando lo “splendido risultato”: ovviamente non si riferiva solamente alla affluenza alle urne. Cosa era successo? Gran parte dell’elettorato moderato, spaventato dalla possibilità di un’avanzata comunista, concentra il proprio voto sulla Democrazia Cristiana in volo verso il 48,5% dei suffragi e la maggioranza assoluta dei seggi. Il Fronte Democratico Popolare (in buona sostanza socialisti e comunisti), nonostante avesse innalzato a suo simbolo l’effigie di Giuseppe Garibaldi, perde quasi il 9% dei consensi rispetto alle elezioni del 1946. In pratica, Democrazia Cristiana batte Fronte Popolare 48,5% a 31%: come un derby finito 5 a 0. E il Cucciolo riprende la corsa. In salita, sbuffando, anzi “frullando” (come si diceva del motorino), il Cucciolo saliva, faticando. Vede la difficoltà dell’uomo qualunque, inteso come i noi tutti di ogni epoca. E, come gli alberi lasciati dietro sé proseguendo nel cammino sulla strada, vede passar via l’“Uomo qualunque” inteso, questa volta, come movimento dell’Uomo qualunque fondato fin dal 1944 da Guglielmo Giannini, regista, commediografo, istrione. Direttamente dal palcoscenico Giannini fa piovere sulla gente comune i suoi slogan tipo «abbasso tutti» oppure «l’uomo qualunque è stufo di tutti, il suo solo ardente desiderio è che nessuno gli rompa le scatole» e accompagnava le sue parole con il simbolo di un uomo schiacciato dal torchio dello Stato. E qualche anno dopo, Corrado Tedeschi propone il “Partito della Bistecca”. Proprio così: il partito della bistecca. Là (nel partito della bistecca) era possibile aderire a un programma fatto di promesse oscillanti fra i 450 grammi di bistecca al giorno a persona, e l’estrazione di tre automobili, dopo le elezioni. Promesse, targate Corrado Tedeschi. Che programma: giochi, lotterie, automobili sorteggiate, nel segno del qualunquismo e della promessa irrealizzabile. E, non si sa per quale motivo arcano, più le sparate sono irrealizzabili e più colpiscono l’elettore. Corrado Tedeschi si affaccia sulla scena politica e promette i sogni dell’italiano medio di allora: carne a tavola tutti i giorni, lotterie per sperare di vincere quattrini senza lavorare e le automobili, sempre estratte a sorte. Insomma, è la riproposizione dello stellone italiano. Come dire: se non ce la facciamo noi (che comunque vi promettiamo la bistecca quotidiana come programma politico), ci penserà la fortuna a farvi diventare ricchi. Ma il Cucciolo, imperterrito, continua a frullare sulle strade di quel 1948. Strade scomode, si è visto: ma il motorino non si fermava. 11 maggio 1948, al quarto scrutinio con 518 voti su 872, Luigi Einaudi viene eletto Presidente della Repubblica Italiana.
Alla radio l’orchestra di Glenn Miller suona Moonlight serenade e arriva la notizia. Anche questa, per radio, con uno stile antico e inconsueto. Si apre con un “evviva!”: «Evviva il primo Presidente della Repubblica Italiana. Il Parlamento ha eletto Luigi Einaudi. Egli ha detto: “Voce del Parlamento, voce del popolo, voce di Dio”. Nella villetta di via Tuscolana, che ha abitato in questi anni, il Capo dello Stato ha ricevuto la visita di De Gasperi. Questi saluti concludono un colloquio di un’ora e mezzo. Mite e gentile, intravediamo donna Ida Einaudi. Sono le 17.30 quando l’auto lascia la villa. A nome dell’Italia, i romani del popolare quartiere salutano per primi il Presidente. In piazza Montecitorio i Carabinieri a cavallo con le spade sguainate. Nell’aula gremita tutti si levano in piedi, ministri, deputati, senatori. Einaudi pronuncerà il giuramento». Ed Einaudi pronuncerà il giuramento, introdotto dal Presidente della Camera Giovanni Gronchi (il Presidente del Senato era Ivanoe Bonomi). Lo farà con una voce rotta dall’emozione e al tempo stesso largamente consapevole della responsabilità di essere il Capo dello Stato di un Paese totalmente rinnovato: repubblicano, democratico, con la Costituzione in vigore da qualche mese. E così il Cucciolo, dopo aver visto passar via l’antipolitica del qualunquismo e della bistecca, incontra sulla sua strada figure diventate esempio per i tempi successivi. La leggenda vuole il predecessore di Einaudi (Enrico De Nicola) farsi rivoltare il cappotto dal sarto, perché non era etico comperarne uno nuovo, mentre l’italiano medio non riusciva ad arrivare a fine mese. Così come di Einaudi si racconta un pranzo al Quirinale nel quale aveva diviso mezza pera con un ospite: quell’ospite pare fosse Ennio Flaiano, stupito da tanta frugalità presidenziale. Salite, discese e il Cucciolo prosegue su questa strada difficile con qualche battuta d’arresto. Era una sera d’estate, calda, troppo calda, una sera di luglio del 1948. 14 luglio, mercoledì. Antonio Pallante, estremista di destra, spara a Palmiro Togliatti. L’Italia è alle soglie della rivoluzione. La notizia si diffonde nel pomeriggio. A macchia d’olio, in tutta Italia vengono occupate le fabbriche, i partigiani vanno a recuperare le armi nascoste in cantina, e presidiano i luoghi strategici. A sera, iniziano i primi incidenti. Il giorno dopo la situazione peggiora. Giuseppe Di Vittorio (segretario generale della Cgil) chiede le dimissioni del governo. Togliatti è grave. Ma dall’ospedale chiede calma ai militanti e i dirigenti del Pci si sforzano per mantenere la calma. Il 15 luglio incidenti gravi in Toscana e in Liguria. Alla fine il bilancio sarà di sette morti tra le forze dell’ordine e di sette morti fra i dimostranti. Non si contano i feriti. Togliatti migliora e parla alla radio. La voce è un filo: «Desidero, prima di tutto, rivolgere un ringraziamento ed esprimere la mia riconoscenza al professore Valdoni che mi ha operato, al professor Frugoni che mi ha assistito come clinico. Io so che senza l’assistenza di questi due grandi scienziati italiani, forse non avrei salvato la mia vita. E insieme con loro io ringrazio tutti i medici, gli assistenti, le infermiere, gli infermieri, qui della clinica e tutti quelli che da tutta l’Italia e da fuori di Italia mi hanno mandato l’espressione del loro affetto, i loro saluti, i loro auguri. Le mie forze non sono ancora molto grandi, però sono fuori pericolo e assicuro tutti i compagni che a suo tempo saprò essere di nuovo al mio posto di lavoro». Tutto questo rassicura i militanti e, contemporaneamente, dalla Francia arriva la notizia della vittoria di Gino Bartali al Tour de France. Togliatti migliora, Bartali ha vinto il Tour, le armi possono rientrare. La rivoluzione è rinviata, mentre Chi baba di Perry Como è ascoltata al punto tale da diventare una ninna nanna per bambini. Ecco la traduzione popolare: «Ci baba, ci baba, ci baba / questa è l’ora di fare la nanna / ci baba, ci baba, ci baba / questa è l’ora di dormir».

Le canzoni. Quasi un doppio senso (in)volontario, un po’ più articolato e politico delle «pompe dei pompieri di Viggù». Perry Como, Chi baba, chi baba, chi baba, in americano. Perry Como, crooner di origine italiana e, nella canzone, una citazione diretta della parola “bambino”: «My bambino go to sleep». Sembra strano, sembra un gioco di parole in questa canzone del 1948, successo internazionale. Dall’America si mette a dormire il bambino e la parola bambino è in italiano. Ma chissà cosa avrà voluto dire. Forse, per capire meglio, si deve fare il salto di un anno. Aprile del 1949. È lunedì 4 e i titoli sui giornali sono sparati a caratteri di scatola: «A Washington si firma oggi il Patto Atlantico». È il 4 aprile del 1949 e – immediatamente – il mondo occidentale è americano, in quell’aprile dolce del 1949. Aprile dolce come quella fine primavera di quattro anni prima quando (nel 1945) la libertà entrava nelle città italiane a bordo delle camionette americane. Entrava la libertà assieme alle sigarette, alle scatolette, alla cioccolata distribuita da quei ragazzoni in uniforme, sorridenti e liberatori. Quei ragazzi sbarcati da quelle navi strane, con quei capelli corti a spazzola, e con le mascelle sempre in movimento per masticare gomme, americane come loro. Vedendoli arrivare, sembrava di ascoltare In the mood, e tutto si muoveva come in un film. Trombe e sassofoni si rincorrono, i piatti della batteria segnano il tempo e, in bianco e nero, ecco i liberatori. Cacciati via i tedeschi, fermate le camionette nelle serate romane, quei ragazzotti (ora morbidi come le loro gomme da masticare) ballavano e insegnavano a ballare alle ragazze italiane, felici e sorridenti come quello scorcio di primavera, sbarcata improvvisamente, assieme agli alleati.

I balli e i miti. Le ragazze ballavano il rock and roll, fumavano le sigarette e (insieme) mangiavano cioccolata e carne in scatola, sfamando appetiti mai sfamati e innamorandosi perdutamente di quegli occhi, di quei capelli a spazzola, di quelle uniformi. Quei ragazzotti morbidi ballavano, e tentavano di baciare le ragazze italiane innamorate di loro. Loro ci stavano, anche perché quei ragazzi promettevano matrimoni. «Tee pòorto con me, in Arkansas… quando reetorno. Don’t worry… non te preoccupare… I must go in Amrerica, in Arkansas, ma reetornerò per portartee con me». Le orecchie di quelle ragazze ascoltavano queste dichiarazioni immaginando Moonlight serenade a sottofondo. In fin dei conti, lui, il corteggiatore, morbido come la gomma americana, assomigliava a Glenn Miller: biondastro, con la bustina di traverso, simpatico, sorridente, probabilmente limpido come quei suoi occhi. E aveva promesso di tornare e di sposarla. Come non credergli: è un americano, un liberatore, ha rischiato la sua vita per la nostra libertà! Una lacrima per salutare e così, in quel 1945, se ne tornavano in America, lasciando (nell’Italia liberata) blue jeans, gomme da masticare, rock and roll, qualche figlio da riconoscere, e amori folli per quelle uniformi e ogni cosa garrisce a stelle e a strisce. Le ragazze sognavano di veder rientrare prima o poi quei giovanottoni. E i giovanottoni italiani si sforzavano di assomigliare ai giovanottoni americani. Senza considerare quanto proprio i giovanottoni americani assomigliassero a quelli italiani senza che questi lo immaginassero: il più delle volte quei soldatini, morbidi come le loro gomme da masticare, avevano lasciato nell’Arkansas mogli e figli, promettendo alle fidanzate italiane matrimoni viziati in partenza proprio dall’esistenza di quelle famiglie americane. Le ragazze aspettano, i ragazzi sognano, immersi nel mito americano. Per cui, quattro anni dopo, batteva forte il cuore quando alla radio arriva la voce di Truman, il presidente di tutti gli americani. Decreta la nascita del Patto Atlantico, un’alleanza con gli americani. Le ragazze aspettano, i ragazzi sognano e si illuminano nel sentire le note dell’inno americano. «Ci stanno aiutando! Gli americani ci aiutano, allora siamo come loro… e poi siamo diventati loro alleati». L’America sembrava più vicina, perché (in caso di pericolo) sarebbe potuta intervenire direttamente. «Come quattro anni fa», si ripetono contenti ragazzi e ragazze. I ragazzi sempre più simili alle immagini in arrivo dagli Stati Uniti. Le ragazze sempre più innamorate delle immagini maschili in arrivo dagli Stati Uniti. Ma qualcuno di quei ragazzoni, morbidi come le loro gomme, sarebbe tornato, proprio all’indomani della firma del Patto Atlantico. Due anni prima (nel 1947) nasce The Company, la compagnia per eccellenza. Nasce la Cia. E, spediti dalla Company, tornano in Italia eserciti di ragazzoni, questa volta in anonimato. Per osservare più da vicino come crescevano i ragazzi italiani.

La Costituzione. «È la storia di tutti / e per tutti un amor / un amore svanito, un romanzo finito, un bel sogno che muor / è la solita storia, una storia del cuor / ma che importa se il fuoco che brucia per poco / dà tanto calor». Con la voce calda e sensuale di Lidia Martorana, la radio diffondeva La storia di tutti. Gli autori Mascheroni e Testoni volevano raccontare una storia d’amore, la solita storia d’amore. In realtà, anche qui un doppio senso, senz’altro involontario. Nasceva in quel 1948 “La storia di tutti”, la nostra storia, la storia fondante del nostro Paese: la Costituzione. Frullando e faticando, in sella al Cucciolo, ma in grado di superare difficoltà con quel motorino piccolo che batte come il mio cuor. La Costituzione è la storia di tutti noi. Concepita in un Paese frammentato e in un mondo diviso, diventa frutto di una unità ideologica sostanziale: si parlava, si ragionava, si discuteva, si progettava nell’interesse di tutti per la storia di tutti. Probabilmente Lidia Martorana non avrebbe mai immaginato questa assonanza tra la sua canzone (una piccola pagina della storia della musica leggera italiana) con la Costituzione, una grande pagina della storia italiana. Ma è piacevole immaginarlo, con un po’ di fantasia, quando eravamo poveri ma belli. Non sappiamo se belli, ma certamente poveri e altrettanto certamente impegnati fino in fondo a ricostruire con la speranza di un domani migliore, nei giorni di una storia lacerata e divisa, ma tornata prepotentemente di tutti. Il Cucciolo, quel “motorino” del 1948, ha funzionato. È riuscito a spingere in avanti, nonostante le buche della guerra, le salite, i pochi soldi per la benzina, la fatica (tanta) per pedalare comunque e aiutare quel motorino a tirare. Intorno a lui, più lontano, nasceva lo Stato di Israele, ed entrava in crisi la Cecoslovacchia e dalla guerra calda combattuta si affacciava una guerra fredda, ma non meno calda. Il tutto in quella nostra storia, quella storia di tutti, anche se nata da contrasti e divisioni. «Di sana e robusta Costituzione», sessantaquattro anni or sono, nata da divisioni, in un Paese unito da poco. Un Paese abituato al contrasto, al dualismo: monarchia e repubblica, come Togliatti e De Gasperi nel tempo di Coppi e Bartali: contrasti che non impedirono la «sana e robusta Costituzione», con la voce della radio a raccontare quella storia di tutti, tra fatti, opinioni e canzoni. Dalle finestre aperte, in quel 1948, le voci della radio si affacciavano ai davanzali, si chiamavano le une con le altre, precipitavano ai piani bassi, piovendo nei cortili dove i bambini giocavano a nascondino, maschi e femmine insieme, ma di nascosto delle mamme. Piovevano, mescolate alle voci delle donne di servizio (chiamate inevitabilmente “cameriere”), unite in coro quasi a sovrapporre in gara la bravura nel ricordare le parole della canzone e l’energia nello sbattere le lenzuola nel lavatoio per farle diventare più bianche. Ed è bello riascoltare ancora quelle voci discrete della radio di ieri. Voci colorate, profonde, legate alla parola e al suo valore. Voci rotonde, trasmesse dalla radio, voce del potere. Ma si impastavano con le voci della gente, rincorrendosi, accavallandosi, stonando insieme, trasformandosi in un suono unico. I cortili respiravano con quelle voci, le voci della radio e le voci della gente: le une eco delle altre e viceversa. Respirava anche il cielo, colorato contemporaneamente dalle voci della radio e dalle voci della gente. Teniamola da conto questa radio, testimone di buona parte della Storia d’Italia. La Storia di Tutti.