Vittorio Zincone, Sette 4/1/2013, 4 gennaio 2013
«BERSANI SCELGA TRA RIFORMISMO E VECCHIA TRIBÙ DELLA SINISTRA»
[Il direttore di Italia Futura, il think tank di Montezemolo, parla del “partito del premier” che sta costruendo e invita il leader del Pd a rompere l’asse con Vendola. «Gli italiani quel piatto indigesto l’hanno già mangiato»] –
Lo incontro nella sede di Italia Futura, la fondazione che guida da tre anni. Il telefono squilla. Sorride: «Sono tutte persone che vorrebbero essere candidate». Andrea Romano, professore di Storia contemporanea dell’Università di Roma - Tor Vergata, prestato al montezemolismo, appena entro nella sua stanza mi sventola in faccia una copertina dell’Economist. Titolo: “True progressivism”. È il numero citato da Monti nel discorso della “salita in campo”. Romano gongola: «È blairiano in senso letterale». Lui di Blair ha scritto una biografia (The Boy) e accanto alla libreria conserva (con fierezza) il ringraziamento autografato dell’ex premier britannico: «Si rende conto?».
Risquilla il telefono: in linea c’è un collaboratore di Monti. Parlano di una strategia comune. Romano, ex braccio destro dalemiano a ItalianiEuropei e attuale direttore della fondazione montezemoliana, è convinto che l’operazione montiana sia il necessario baricentro riformista della prossima legislatura: «Anche perché nel Pd rischiano di prevalere gli istinti della vecchia sinistra». Problema: oggi i sondaggi dicono che il Pd è il principale partito in circolazione. E il Pd è alleato di Vendola. L’operazione montiana come si incastra in questa giostra elettorale?
Non credo che Vendola intendesse la presenza di Monti nella maggioranza quando ha chiesto “profumo di sinistra” a Bersani in cambio del sostegno alle primarie del Pd.
«Dopo il voto Bersani dovrà prendere una decisione: dar vita a un governo riformista o assecondare il richiamo della foresta e ammettere che tra lui e i massimalismi di sinistra non c’è distinzione. Ci si ricorda dei grandi leader europei proprio perché hanno saputo fare questa scelta».
Mi fa qualche esempio?
«Tony Blair riuscì a cambiare il suo Paese anche riducendo l’influenza dei tradizionalisti nel suo partito, il New Labour. E Gerhard Schröder…».
Anche Schröder mise da parte la sinistra radicale?
«La sua riforma del lavoro era molto più avanzata di quella di Fornero e venne contrastata dalla sinistra radicale: Oskar Lafontaine gli diede del traditore. Schröder inaugurò la “Neue Mitte”, cioè il Nuovo Centro. Se la Germania ora sta bene è anche grazie a quelle leggi impopolari imposte dieci anni fa».
Insomma, Bersani, secondo lei, dovrebbe scaricare Vendola per costruire una Neue Mitte riformista con Monti e Montezemolo?
«Tra le prime cose da fare c’è una riforma seria del welfare, la lotta all’apartheid tra tutelati e non tutelati...».
Monti ha sposato le tesi di Pietro Ichino, che fino a poco fa era nel Pd di Bersani...
«Appunto. Credo che con le proposte di Fassina, Vendola e Camusso il Paese non si salvi e che con loro i nostri figli si ritroveranno tra vent’anni con meno garanzie di quante ne abbiano oggi. Bersani deve fare chiarezza a sinistra. Sentirlo proporre al Paese “moralità e lavoro” non è un buon segno».
Che cosa ha contro quell’accoppiata?
«Nulla. Ma fa parte di una vicenda identitaria della sinistra moralista e svela una debolezza di Bersani».
Quale debolezza?
«Il vizio che ha impedito agli ex Pci di diventare davvero liberali: non ammettere nemici a sinistra e quindi corteggiare perennemente anche l’elettorato gauchista. Sa che cosa temo di più?».
Che cosa?
«L’eterno ritorno. Lo spettro del 2006 è dietro l’angolo. Ricorda il governo Prodi? Sette anni dopo rivedo Berlusconi con la retorica anti-sinistra, ma più schiacciato sul radicalismo populista. E Vendola nella parte di Bertinotti. Gli italiani quel piatto l’hanno già mangiato. È risultato indigesto allora, figuriamoci oggi che si ripresenta in forma avariata e deteriorata. Vecchie tribù identitarie che si affrontano in un rito stanco. Sarebbe l’Armageddon. Anche perché gli italiani non sono mai stati così lontani dalla politica».
Per riavvicinarli all’impegno civico spuntano nuovi movimenti: Ingroia...
«Anche Ingroia è l’eterno ritorno. Prima Di Pietro, poi De Magistris... I pm che capitalizzano la loro carriera in magistratura».
Il Pd ha Pietro Grasso e voi montiani Stefano Dambruoso.
«Non è la stessa cosa. Con Ingroia c’è un déjà vu: il modello arruffa popolo da terrazza romana. Dipietrismo, girotondismo, travaglismo, ingroismo. Grillo se li mangia tutti, perché ha pure un radicamento popolare. Non condivido mezza parola di quel che dice, ma ho grande rispetto del M5S».
Grillo ha detto che Monti è un energumeno istituzionale.
«Al populismo di Grillo va contrapposto un progetto innovativo. E quello di Monti lo è. Lo scontro perfetto è tra i populismi di Grillo e Berlusconi, che farebbero sprofondare l’Italia fuori dai confini europei, e Monti, che incarna l’Italia delle trasformazioni forti e dolorose: un centrismo riformista che non sia conservazione e palude».
Si può costruire questo nuovo centrismo con Casini e Cesa? Sono in politica da 30 anni. Berlusconi imputa proprio a loro il fallimento della sua prima stagione di riforme.
«Casini mi sembra che abbia avuto un’evoluzione importante negli ultimi anni».
Nell’agosto 2011 lei disse che Montezemolo e Casini sono come l’acqua e l’olio.
«Nel frattempo Casini ha fatto scelte coraggiose e responsabili».
Olio e acqua. Che cosa c’entra Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, con quella che Crozza ha soprannominato l’Italia dei carini di Montezemolo?
«C’entra. Per il lancio di Italia Futura, nell’ottobre 2009, chiedemmo a Riccardi di intervenire. Mi è sempre piaciuto il cattolicesimo comunitario e carismatico di Sant’Egidio e la figura romano-globale di Riccardi. Montezemolo e Riccardi hanno in comune la spinta all’impegno civile. La stessa che hanno trovato in Italia Futura altri due cattolici come Andrea Olivero e Lorenzo Dellai. La stessa che io incontro da tre anni in tutto il Paese».
Tre nomi che identificano Italia Futura.
«Carlo Calenda, Stefania Giannini e Marco Simoni».
C’è chi sostiene che stiate creando una nuova Dc, altro che Terza Repubblica.
«Potrei rispondere che intorno a noi vedo le stanche imitazioni di Le Pen o di Natta. La verità è che l’operazione a cui stiamo lavorando sarà l’unica novità».
Lei è mai stato comunista?
«Quando ero adolescente ero affascinato da Amedeo Bordiga... Da storico ho studiato il comunismo sovietico ed europeo per molti anni».
Non ha mai nemmeno preso la tessera dei giovani comunisti, la leggendaria Fgci?
«No. A Livorno erano tutti figicciotti, non era originale averla».
La sua infanzia a Livorno?
«Ho studiato dai salesiani. Mio padre era un marittimo e mia madre infermiera».
Università?
«A Pisa. Dopo il crollo del Muro mi trasferii a Mosca, a studiare negli archivi lo stalinismo degli Anni 30. Nel 1993, mi chiamarono all’Istituto Gramsci, dove serviva uno storico che sapesse il russo».
Il primo impatto con i Palazzi romani?
«Durante il governo D’Alema andai a lavorare con Umberto Ranieri agli Affari Esteri. In quel periodo facevo anche il ghostwriter e sempre allora conobbi Giuliano Amato, che mi chiese di dar vita alla Fondazione ItalianiEuropei».
Il think tank dalemiano.
«D’Alema arrivò in un secondo momento».
Lei quando lo ha conosciuto?
«Pochi giorni dopo la caduta del suo governo. Andammo a prendere un caffè. L’impatto fu molto maschio».
Maschio?
«D’Alema è uno che richiede franchezza. Abbiamo lavorato insieme cinque anni».
Era un dalemiano sfegatato, ha lavorato con lui e alla fine ha scritto Compagni di scuola, un libro con cui ha stroncato D’Alema e la sua generazione.
«Sono stato anche iscritto al Pds tra il ’94 e il ’96. Il D’Alema blairiano e liberale mi piaceva molto. Ma è durato poco».
Quando ha smesso di piacerle, il líder Massimo?
«Dopo il 2001 ho assistito a un duplice declino: la sua risposta all’11 settembre è stata di chiusura anti-occidentale con un fastidioso pregiudizio su Israele. E in Italia non ha voluto cogliere l’occasione di guidare il suo popolo alla trasformazione e ha preferito tornare indietro sulla via identitaria: i contratti sventolati fuori dalle fabbriche e via dicendo. In pratica il suo tentativo di riformare la sinistra è stato una sconfitta».
Da D’Alema è passato a Montezemolo.
«In mezzo ci sono 5 anni di lavoro: ho scritto per la Stampa e per Il Sole 24 Ore, ho curato la saggistica per Einaudi e poi sono passato all’editore Marsilio».
Come ha conosciuto Montezemolo?
«Mi chiamò lui dopo aver letto un articolo sul leader laburista Gordon Brown, sulla Stampa. Quando me lo passarono al telefono pensai che fosse uno scherzo».
Quando arrivò la telefonata?
«Aspetti che controllo sull’agenda».
Ha segnato la data?
«Io segno tutto, in maniera ossessiva. Ecco… ci siamo visti il 7 febbraio 2007, in via Veneto. Montezemolo è un uomo curioso. Voleva sapere che cosa avevo combinato nella vita. Gli portai i miei libri. E lui se li lesse».
A cena col nemico?
«Con Nichi Vendola. È una persona gentile».
Ha un clan di amici?
«Molto ristretto. Due nomi: Gianfranco Scarfò, giudice a Napoli, e Giancarlo Schirru, storico della lingua».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Trasferirmi a Roma, nel 1993. Se non l’avessi fatto forse sarei rimasto tutta la vita a Pisa».
L’errore più grande che ha fatto?
«Lasciare la Stampa diretta da Giulio Anselmi per tornare al Riformista. Anselmi è stato un grande direttore. Era feroce, ma in maniera educativa».
Quanti figli ha?
«Quattro: Dario, Guido, Elena e Nina».
Il film preferito?
«Mongol di Sergej Bodrov. Racconta l’infanzia di Gengis Khan».
Il libro?
«I promessi sposi di Alessandro Manzoni. Consiglio di rileggerlo, a tutti».
Per chi ha scritto il suo discorso più bello?
«Un ghost writer queste cose non le racconta. Mai».