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 2013  gennaio 04 Venerdì calendario

LEGGERE IL FUTURO NEL DNA

Un numero enorme di informazioni e la capacità di interpretarne con certezza solo una piccola parte. La genetica sta rivoluzionando la medicina come nessun’altra disciplina ha mai fatto ma il prezzo da pagare è alto, per i dottori e per i cittadini. Chi vuole sapere se il proprio figlio quando sarà vecchio rischia più degli altri di avere l’Alzheimer, una malattia oggi incurabile? E quale medico ha intenzione di comunicarglielo? Si dice che «l’informazione è potere», ma in certi casi può diventare angoscia, stress, anche spreco di soldi, buttati per inseguire una prevenzione impossibile. Il genoma umano è stato sequenziato nel 2003 aprendo orizzonti un tempo nemmeno immaginabili. Se è vero che dopo dieci anni le armi contro molti problemi di salute sono diventate più efficaci, è anche chiaro che pazienti, biologi, medici e bio-eticisti si trovano di fronte a effetti collaterali non di poco conto.
«Assumi un ruolo più attivo nella gestione della tua salute»: usa questa frase il sito 23andMe per invitare i clienti a richiedere il kit per prelevare da soli con un tampone un po’ di saliva da spedire ai laboratori della compagnia, la cui ceo è Anne Wojcicki. Si tratta della moglie del co-fondatore di Google, Sergey Brin, che grazie ai test ha scoperto di avere l’80% di rischio di sviluppare il Parkinson. «Credo che arriveremo a un punto in cui a tutti sarà fatto il genotipo completo dalla nascita», ha detto al Time Wojcicki. Non è l’unica a immaginare un mondo in cui la sequenza del nostro Dna sarà contenuta in un chip, sempre a disposizione dentro il portafoglio. Intanto cresce a ritmo forzato il numero di corrieri che anche dall’Italia partono verso i laboratori di 23andMe e di altre multinazionali, facilmente individuabili in Rete, con campioni da analizzare. I risultati arrivano nel giro di un paio settimane, sullo schermo del computer. Senza filtro, senza medici di mezzo.
Nel 2003 per sequenziare il genoma si spesero 2,7 miliardi di dollari. Da quella prima volta i costi per fare analisi approfondite dei geni sono crollati. Con 99 dollari oggi si può studiare il rischio per circa 200 malattie. Così il marketing dei privati si è fatto più spregiudicato. Ma non sempre avere informazioni genetiche è d’aiuto alla cura. «A molti dei dati che arrivano dallo studio sul Dna non sappiamo ancora dare un valore prognostico, non si sa cosa significano. Chi cerca alla cieca, senza basarsi per esempio sull’ereditarietà di certe patologie, rischia di arrivare a risultati il cui significato sfugge», spiega Francesca Torricelli, che dirige la diagnostica genetica del policlinico di Careggi a Firenze. «Noi, come le altre strutture pubbliche, lavoriamo per cercare malattie ben precise, partendo da consulenze con il genetista che approfondiscono la storia del paziente e della sua famiglia. E poi diagnostichiamo le patologie. Più raramente lavoriamo sul rischio». A Torricelli, come a molti suoi colleghi, non piace quello che sta succedendo fuori dagli ospedali: «I privati parlano di un cittadino che deve imparare a gestire la propria salute ed è responsabile nei confronti della società, della famiglia e di se stesso. Ma non è vero, si tratta di pubblicità sbagliata. Non si devono lasciare le persone sole con queste informazioni ».
Anche in Italia stanno nascendo laboratori privati che fanno analisi sul Dna. «Ma noi siamo diversi — dice Maura Menaglia, biologa del laboratorio Genoma di Roma, uno dei più grossi nel nostro Paese — A chi ci chiede di sapere di cosa si ammalerà rispondiamo di no, che non facciamo accertamenti senza obiettivo. Lavoriamo molto sugli screening prenatali e sulla nutri- genetica. Per esempio, cerchiamo geni legati all’osteoporosi in giovani che hanno la madre con questo problema. E se scopriamo qualcosa diamo indicazioni sulla dieta da seguire. Certo, poi a qualcuno facciamo anche gli accertamenti sulla paternità».
I test genetici possono essere divisi in tre tipi. Ci sono quelli diagnostici, a cui fa riferimento Torricelli, che partono da un sospetto e servono a capire se una persona ha una certa patologia o è solo portatrice. Si usano per la fibrosi cistica e la trombofilia, per individuare le anomalie cromosomiche nella diagnosi prenatale.
Poi ci sono quelli pre-clinici, che riguardano un numero (ancora piuttosto ristretto) di malattie per cui si può dire con certezza che colpiranno una persona entro un numero di anni definito. Infine, ci sono quelli di suscettibilità o predittivi, per calcolare attraverso le analisi delle mutazioni di uno o più geni
la probabilità che un problema si sviluppi in futuro. Nel sistema pubblico questi accertamenti si eseguono se c’è una familiarità accertata per patologie neurologiche, per tumori, diabete e altro.
Non è raro che quando si fanno esami genetici, magari in strutture pubbliche per approfondire rischi ereditari, ci si imbatta in malattie per cui non c’è cura. «È il caso della Corea di Huntington — dice Monica Miozzo, direttore della scuola di specializzazione di genetica medica del policlinico di Milano — Quando troviamo un portatore per noi è una spada di Damocle. Se lo diciamo al paziente rischiamo di farlo vivere nell’angoscia per i prossimi vent’anni. Certo, se chiede di sapere cosa rischia perché vuole fare un figlio, dobbiamo chiarire a cosa va incontro. Magari cercando di spiegare che la ricerca da oggi a quando si manifesterà la malattia potrebbe aver fatto passi avanti».
Perché, quando si parla di genetica, la zona grigia è proprio quella della probabilità di ammalarsi. Negli Stati Uniti ci sono genitori che chiedono ai laboratori di sapere se la figlia piccola rischia di sviluppare il tumore del colon o delle ovaie. In Inghilterra c’è stato addirittura il caso di una donna che ha abortito perché il Dna del feto ha rivelato una alta probabilità di sviluppare il tumore al seno. «Un caso estremo e unico — commenta Miozzo — I test che danno solo risultati probabilistici in molti casi aumentano solo l’angoscia delle persone riguardo a malattie che possono presentarsi dopo molti anni o non presentarsi affatto. La possibilità che queste si sviluppino è anche condizionata da fattori esterni, come lo stile di vita e l’ambiente. Inoltre non ha davvero senso spingersi a ricercare nei bambini patologie complesse che si manifestano in età adulta. Pensare di utilizzare come
screening gli esami completi del genoma è sbagliato: non si può fare il test del Dna con la stessa leggerezza con cui si va al supermarket a fare la spesa». Miozzo lavora anche alle altre possibilità offerte dalla nuova genetica, come capire quali effetti possono avere i farmaci sul singolo malato di tumore. È uno dei nuovi fronti rivoluzionari della medicina, la ricerca di terapie mirate per il singolo caso.
Il rapporto medico-paziente, già complicato quando si tratta di comunicare diagnosi negative, viene portato all’estremo nel caso di rischio di una patologia grave che si può manifestare dopo anni. È giusto rendere noti i problemi incurabili con tanto anticipo? Secondo Giovanni Boniolo, docente di filosofia della scienza all’Università di Milano e bio-eticista, la scelta è individuale. «Se una persona lo vuole ha tutto il diritto di essere informata, anche se non c’è niente da fare. Sta alla sfera personale di ciascuno: c’è chi preferisce trascorrere vent’anni senza sapere che lo aspetta una patologia drammatica e chi invece intende impiegare quel tempo per prepararsi alla morte. L’importante è che non sia lo Stato o una religione a regolare le scelte dei cittadini in campi come questo». Per Boniolo uno dei problemi principali è che, quando si tratta del Dna, «il soggetto è investito da responsabilità relative alla gestione della sua vita ma anche di quella dei suoi familiari, visto che molto spesso si tratta di problemi ereditari». Anche il filosofo non vede di buon occhio chi lavora fuori dal pubblico in questo settore. «È una fortuna che la scienza sia andata avanti ma è una sfortuna che siano entrati in gioco i privati. Spingono a fare gli screening del genoma quando si sta bene, ed è una follia».