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 2013  gennaio 04 Venerdì calendario

COSÌ L’ITALIA BATTE LA GERMANIA IN 1.200 PRODOTTI

C’è da augurarsi che nelle tante agende politiche trovino spazio due grandi pilastri sottovalutati dell’Italia che i suoi governi non riescono a valorizzare. Si tratta dell’industria manifatturiera, di cui parleremo oggi, e della ricchezza delle famiglie, di cui ci occuperemo in un prossimo articolo. Come ha ribadito un recente studio di McKinsey Global Institute ("Manufacturing the Future", novembre 2012), la manifattura italiana è la seconda d’Europa e la quinta del mondo per valore aggiunto, pur incalzata da giganti emergenti come Brasile e Corea del Sud. Marco Fortis
Ma vi sono due diffusi luoghi comuni sulla nostra industria: il primo è che essa sia poco competitiva e il secondo che essa sia costituita di imprese troppo piccole per competere sui nuovi mercati globali. L’indicatore principale su cui sono state edificate queste due "verità" è che l’Italia negli ultimi anni ha visto sensibilmente ridursi la propria quota di mercato nell’export mondiale (come è accaduto, peraltro, anche a Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e allo stesso Giappone, a causa dell’arrembante ascesa della Cina). Ma tutto cambia se si considerano i rapporti con l’estero escludendo l’energia e le materie prime agricole e considerando come metro della competitività non l’export bensì la bilancia commerciale dei prodotti manufatti non alimentari calcolata dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. Intanto l’Italia è uno dei soli 5 Paesi del G-20 (con Cina, Germania, Giappone e Corea) ad avere un surplus strutturale con l’estero nei manufatti. Se poi si prende come benchmark il surplus commerciale dei manufatti della Germania, e lo si pone costante nel tempo uguale a 100, negli ultimi 5 anni (2006-2011) il surplus italiano è sceso di poco, passando da un indice di 23,8 a 21,5 (il nostro attivo nei manufatti è cioè il 21,5% in valore di quello tedesco). Inoltre, nel 2012 vi è per noi la concreta possibilità di recuperare molto terreno (l’indice potrebbe toccare quota 25) in quanto il nostro attivo manifatturiero a fine anno sfiorerà probabilmente i 120 miliardi di dollari, record storico assoluto. L’Italia sta dunque dando prova di tenuta nel commercio mondiale, mentre la bilancia manifatturiera degli altri maggiori Paesi avanzati nel 2006-2011 si è deteriorata parecchio rispetto alla Germania: quella del Giappone è scesa da un indice di 96,8 a 84,8, quella della Francia da -0,3 a -12,9 e quella del Regno Unito da -18,9 a -26,1. Gli Stati Uniti durante la crisi hanno parzialmente ridotto il loro gigantesco disavanzo ma rispetto al surplus manifatturiero della Germania rimangono inchiodati nel 2011 ad un indice pari a ben -146,2 (ossia il deficit degli USA per i manufatti è simmetricamente uguale al 146,2% del valore del surplus tedesco). Ma c’è un altro dato che evidenzia la forza dell’Italia sui mercati esteri, pur non possedendo essa i grandi gruppi industriali di altri Paesi, avendo tuttavia un "quarto capitalismo" di imprese medie e medio-grandi che sta facendo miracoli. Secondo l’indice Fortis-Corradini della Fondazione Edison, su circa 4.000 prodotti scambiati internazionalmente e statisticamente censiti, l’Italia ne vanta oltre 2.000 che presentano un surplus di bilancia commerciale e in 1.217 di essi il nostro Paese precede per attivo la Germania presa come benchmark. Tali 1.217 prodotti in cui "battiamo" i tedeschi nel 2011 hanno espresso un surplus con l’estero di ben 151 miliardi di dollari (pari al 6,9% del nostro Pil). Nel mondo solo la Cina può fregiarsi di un maggior numero di casi in cui è più competitiva della Germania: 2.134 prodotti in totale (con un surplus corrispondente al 17,2% del Pil di Pechino). Gli Stati Uniti sono al terzo posto (con 1.099 prodotti ma con un attivo specifico pari solo all’1,7% del proprio Pil) mentre il Giappone è in quarta posizione (i beni in cui Tokyo batte Berlino sono in totale 1.097 e valgono il 6,8% del Pil nipponico). Dunque l’Italia, pur avendo un sistema-Paese inefficiente, non manca certamente di competitività esterna, anche se non dobbiamo mai stancarci di spingere le imprese a crescere ulteriormente e ad internazionalizzarsi di più per cogliere nuove opportunità. Quel che ci fa difetto da anni è invece la crescita del mercato interno, letteralmente "collassato" negli ultimi mesi a causa delle (pur necessarie) politiche di rigore e delle loro conseguenze negative su occupazione, potere d’acquisto, propensione alla spesa privata, investimenti. Oltre all’edilizia, che è quasi in agonia, vi sono settori portanti del made in Italy come l’abbigliamento, le calzature, il mobile ed altri che soffrono attualmente di cali dei consumi domestici da tempi di guerra, che possono significare una perdita irreversibile di aziende e posti di lavoro. Quando Paesi "non produttori" come la Gran Bretagna o la Spagna intraprendono politiche di austerità, come è accaduto dal 2009 in poi, essi si limitano a ridurre principalmente le importazioni. In un Paese "manifatturiero" per eccellenza come l’Italia, invece, troppo rigore sbilanciato dal lato delle entrate e conseguente gelata dei consumi significano inevitabilmente una forte contrazione della produzione domestica: sicché, paradossalmente, al posto di ridurre la "massa grassa" del debito pubblico (che necessita soprattutto di tagli di spesa anziché di maggiori tasse) rischiamo in questa fase di intaccare pericolosamente la "massa muscolare" della nostra manifattura cioè il nostro stesso potenziale di sviluppo. Pur consci che la stabilizzazione dei conti pubblici resta la nostra prima priorità, crediamo che in questo difficile momento serva anche un’agenda per l’industria che parta da un piano di sostegno mirato della domanda interna di settori manifatturieri fondamentali come quelli delle cosiddette "4A". Ad esempio, incentivi come quelli suggeriti dalla Federlegno-Arredo, che vorrebbe che gli arredi fossero equiparati nella deducibilità fiscale alle spese per le ristrutturazioni edilizie, andrebbero posti al centro di qualunque programma elettorale che abbia minimamente a cuore le sorti delle nostre imprese e dei loro lavoratori. Così come dovrebbero essere prioritari un piano per la ricerca, un piano per l’energia e un piano di riduzione del cuneo fiscale che assicuri una corsia di precedenza assoluta agli addetti dell’industria manifatturiera e alle loro buste paga. I dipendenti dell’industria lo meritano perché, come dimostrano i successi sui mercati mondiali, sono proprio essi che oggi stanno tenendo in piedi il Paese e con uno stipendio un po’ più alto potrebbero anche riprendere a consumare un po’ di più.