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 2013  gennaio 04 Venerdì calendario

ALLA FACCIA DELLO SPREAD

La crisi del 2008 ci ha insegnato che il mondo è interconnesso: ciò che succede in un angolo del globo ha ripercussioni sull’andamento di tassi, cambi e borse nel resto del mondo. Per valutare i rischi e cercare opportunità di investimento bisogna quindi capire che cosa succede al di fuori dei confini nazionali. Spesso infatti non ci si rende conto di quanto l’andamento delle attività finanziarie italiane dipenda anche da quanto succede in altri continenti. Fermarsi allo "spread" dei Btp, o pensare che Eurolandia sia il centro del mondo, non è il modo migliore per gestire i propri risparmi.
Il 2012 è stato dominato da tre questioni macroeconomiche che continueranno a tenere banco nel 2013, monopolizzando l’attenzione dei mercati: la debolezza della ripresa americana; la capacità della Cina, e delle altre economie a rapido sviluppo, di raffreddare la crescita senza arrestare l’attività economica; e la crisi del debito pubblico nell’Eurozona.
L’andamento dell’economia americana e Wall Street rimangono ancora il punto di riferimento per gli investitori. La ripresa negli Stati Uniti è lenta e debole. Ci sono voluti quattro anni perché il Pil degli Usa (a prezzi costanti) recuperasse il livello massimo raggiunto prima della crisi: solo nel terzo trimestre del 2012 aveva superato del 2,3 per cento il livello del giugno 2007 (vedi grafico a destra). L’economia è tornata a creare stabilmente posti di lavoro (1,9 milioni nei dodici mesi a novembre scorso), ma più lentamente che in passato, e non basta a riassorbire la disoccupazione. Inoltre le famiglie americane devono risparmiare di più, per ridurre l’indebitamento con cui avevano finanziato l’acquisto di immobili e beni durevoli. Così i consumi stagnano.
Le politiche anti-crisi hanno però cominciato ad avere effetto e, per quanto debole ed esposta al rischio del fiscal cliff (il meccanismo che fa scattare aumenti di imposte e tagli di spesa se Congresso e Presidente non si accordano sul rientro del deficit pubblico), la crescita è destinata a consolidarsi nel 2013, riavvicinandosi al livello medio di lungo periodo (circa 3 per cento). Quattro gli elementi a favore di questo scenario.
Il settore immobiliare, dopo lo scoppio della bolla che aveva innescato la crisi ha toccato il fondo. I prezzi medi delle case sono caduti fino al 34 per cento (mai successo nel dopoguerra), tornando vicini al trend storico in rapporto al reddito. Inoltre la nazionalizzazione degli enti che garantiscono i mutui alle banche erogatrici ha evitato il credit crunch permettendo a molti debitori di rifinanziarsi a tassi sostenibili. Il miglioramento dello scenario immobiliare avrà dunque un effetto ricchezza sui comportamenti dei consumatori, aumentandone la fiducia.
Lo sviluppo della tecnologia per estrarre gas e petrolio dagli scisti bituminosi, di cui gli Usa sono ricchi, ha cambiato lo scenario energetico del paese, che in un decennio potrebbe diventare non solo autosufficiente, ma anche uno dei maggiori esportatori di gas naturale.
La crisi delle banche e di altri settori (AIG, auto) che il crash di Lehman aveva portato al dissesto, è ormai risolta. Il Governo (con il Troubled Asset Relief Program) e la Federal Reserve hanno imposto la pulizia dei bilanci - facendosi carico di titoli tossici, attività illiquide e sofferenze - la vendita di attività e il ridimensionamento e/o le fusioni dei gruppi; sostituito il management; e azzerato i vecchi azionisti sottoscrivendo aumenti di capitale fortemente diluitivi. Le banche e le società colpite dalla crisi sono ora risanate, ben capitalizzate, di nuovo in crescita e redditizie. Il risanamento delle banche ha così evitato il credit crunch. E il successo delle ristrutturazioni ha permesso a Tesoro e Fed di rivendere rapidamente, e spesso con profitto, le azioni e le attività rinvenienti dalle ristrutturazioni, con un impatto limitato sui conti pubblici.
Al di fuori di banche, istituzioni finanziarie e auto, colpite dalla crisi, la struttura finanziaria delle imprese è rimasta solida: hanno subito ricostituito i margini e vantano livelli record di liquidità. La politica monetaria poi, azzerando i tassi a breve e portando quelli a lunga al di sotto del tasso obiettivo di inflazione (2 per cento), ha innescato una forte domanda di obbligazioni corporate da parte degli investitori a caccia di rendimenti, permettendo il rifinanziamento del debito a tassi bassi.
Quindi, lo scenario 2013 è complessivamente favorevole alle azioni. Certamente un mancato accordo sul piano di rientro del deficit pubblico o un accordo tardivo o rabberciato, potrebbero provocare una caduta della Borsa, come già successo nell’estate 2011. Ma sarebbe confinato nei primi mesi dell’anno, senza intaccare il trend positivo. Il fiscal cliff è il dibattito politico su come rientrare dal debito causato dalla crisi, analogo a quello in corso in Europa. Ma a differenza dell’Eurozona, il risanamento può essere diluito nel tempo poiché il debito pubblico americano è più facilmente sostenibile grazie a una crescita potenziale più elevata e all’assenza di un vincolo esterno come l’euro. Lo scenario rimane favorevole anche al rischio di credito, specie le cartolarizzazioni legate agli immobili e le obbligazioni corporate, nonostante le performance stellari nel 2012 di questa tipologia di investimento abbia eroso gli ulteriori, ipotizzabili, margini di guadagno. Tuttavia la politica dei tassi nulli della Fed, prevista per tutto il 2013, continuerà a sostenerne la domanda.
Il secondo elemento dello scenario 2013 è la crescita dei paesi emergenti. C’è ormai il convincimento tra gli investitori che senza il traino dei paesi emergenti - in primo luogo i BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), ma di Indonesia, Turchia, o Corea - non ci può essere crescita, quindi utili e borse in salita e debiti pubblici sostenibili, nel mondo avanzato. Gli investimenti in infrastrutture di questi paesi sono stati la prima fonte della domanda mondiale per i settori dei mezzi di trasporto, tecnologia, engineering, energia e materie prime. Ma lo sviluppo ha generato anche una domanda interna che è diventata il principale mercato di sbocco per beni durevoli. Che cosa sarebbe dell’industria italiana del lusso senza il consumatore asiatico? E quante sono le grandi aziende italiane (Fiat, Telecom, Impregilo, Terna) che trovano in Brasile la crescita che manca da noi?
La crescita dei BRIC ha trascinato tutte le economie del mondo dalla fine degli anni ’90 (vedi grafico in alto). La brusca caduta innescata dal crash di Lehman è stata superata rapidamente, e già a metà 2010 la crescita era tornata ai livelli pre crisi. La forte ripresa, dopo anni di crescita record, e i conseguenti flussi di capitale, hanno però generato timori di inflazione e di bolle immobiliari, mettendo a rischio sistemi bancari e finanziari ancora poco efficienti. Per raffreddare la crescita in questi paesi si sono attuate politiche di contenimento della domanda che, associate alla debolezza mondiale, hanno fatto ripiombare i tassi di crescita ai minimi della crisi del 2008.
Tuttavia, gli ultimi dati mostrano che il rallentamento si è arrestato e lo scenario per il 2013 è di ripresa. Scenario positivo non solo per i mercati azionari dei paesi emergenti, ma anche per tutte le attività che beneficiano da una ripresa cinese, e dell’Asia più in generale (materie prime, dollaro australiano, società esportatrici di tecnologia e beni durevoli). Come pure delle obbligazioni corporate e governative dei molti paesi emergenti che vantano ormai fondamentali macroeconomici migliori del mondo occidentale. Uno scenario in parte scontato dai mercati, che dall’estate scorsa hanno premiato gli investimenti in quest’area del mondo.
Il terzo elemento è la crisi del debito dell’Eurozona. Dal punto di vista del mercato, il "put" di Draghi (la dichiarazione che la Bce interverrà sempre a sostegno del debito dei paesi che dovessero finanziarsi a tassi troppo onerosi) e la volontà dei politici tedeschi di evitare qualsiasi crisi dell’euro, con i relativi costi per le loro finanze, prima delle elezioni nell’autunno 2013 (una volontà dimostrata dall’ingegneria finanziaria usata per la ristrutturazione e il buyback del debito greco in mani private, di fatto trasferito, a valori decurtati, ai Governi europei e Istituzioni internazionali, senza che questi dovessero contabilizzare alcuna perdita) scongiurano un nuovo episodio di crisi nell’Eurozona. Nel caso, ci sarebbe un nuovo intervento straordinario della Bce. Non è improbabile quindi che gli spread dei paesi indebitati si possano chiudere ulteriormente; almeno temporaneamente. Guardando oltre, le prospettive economiche rimangono nere.
La crisi bancaria, che blocca l’erogazione del credito nonostante i finanziamenti della Bce, è lungi dall’essere risolta. L’Unione Bancaria rimane un progetto futuribile, e comunque non risolverebbe, almeno nell’attuale definizione, il problema della bassa qualità e liquidità degli attivi bancari, che è alle radici del credit crunch. Il disequilibrio fondamentale dell’Eurozona –la Germania esporta capitali, e tutti gli altri li importano – senza la possibilità di svalutare il cambio, e con l’euro stabile, implica che, per rilanciare le esportazioni e riportare le partite correnti in attivo, si debba guadagnare competitività riducendo il costo del lavoro per unità di prodotto rispetto alla Germania. Con un effetto recessivo che si somma alle politiche fiscali di austerità, richieste per rendere il debito pubblico sostenibile; obiettivo più difficile da raggiungere proprio a causa del rallentamento. Un circolo vizioso che garantisce stagnazione e bassa crescita anche per il 2013; e non solo per i paesi indebitati: probabilmente a questi si aggiungerà la Francia.
A quattro anni dall’inizio della crisi il Pil dell’Eurozona nel suo complesso non ha ancora recuperato i livelli pre crisi (grafico a pag. 101); fanalino di coda l’Italia la cui attività economica è il 7 per cento al di sotto del 2007. Uno scenario che non favorisce gli investimenti nel capitale delle società europee, almeno quelle che dipendono dalla domanda interna, e nelle banche. Le borse lo sanno, e infatti la performance degli indici europei è stata nettamente inferiore al resto del mondo (grafico in basso a sinistra).
Quando si vedrà veramente la fine della crisi del debito, senza più "put" della Bce, questo gap di performance è destinato a chiudersi, e le azioni europee a rimbalzare. Sono sempre possibili fuochi di paglia, ma i mercati americani e asiatici offrono ancora migliori opportunità e un rischio minore. Quanto agli investimenti nel rischio di credito, in Europa l’offerta di obbligazioni corporate non bancarie è notoriamente carente. Anche qui le migliori opportunità sono altrove.
Rimane il rischio di cambio, che è difficile da decifrare. Qui lo scenario è una guerra silenziosa tra americani, europei e asiatici, ciascuno a sostenere la propria ripresa con politiche monetarie super espansive che, tra le altre cose, svalutino il cambio. Si sono già visti chiari segnali: gli Usa che premono per una rivalutazione dello yuan cinese, e il nuovo premier giapponese che ha apertamente intimato alla Banca Centrale di svalutare lo yen. Questa guerra non avrà né vinti né vincitori, ma creerà instabilità nei cambi delle principali valute. Meglio quindi non puntare su una divisa, vista la difficoltà di fare previsioni in uno scenario che può cambiare repentinamente. Ma ricordarsi di diversificare anche il rischio euro.
Come nel 2012, anche il prossimo vedrà la sparizione dell’investimento "privo di rischio": con i tassi di mercato monetario che tendono a zero ovunque, e quelli dei titoli di Stato senza rischio sovrano (Stati Uniti e Germania) inferiori all’inflazione anche per scadenze a 10 anni, diventa imperativo assumersi dei rischi, cercandoli tra le migliori opportunità nel mondo, se non si vuole che alla lunga i propri risparmi vengano erosi dall’inflazione.