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 2013  gennaio 04 Venerdì calendario

CHE FATICA IL CALCIO

[Intervista a Giancarlo Abete]

Governa sulla passione calcistica di un milione e 400 mila tesserati. La popolazione di uno Stato europeo come l’Estonia. Distribuita fra professionisti e dilettanti in 70 mila squadre. Con un regolamento gestito da 30 mila arbitri che dirigono 700 mila partite l’anno (in media circa 2 mila al giorno). Un fenomeno glocal reso sempre più complesso dall’intreccio esasperato di interessi finanziari e pulsioni campanilistiche esaltate come fedi. E aggredito oggi dal virus della frode sportiva, dalla violenza degli ultras, dall’inadeguatezza degli stadi, dai veleni di faide societarie e dalla tirannia dell’onnipotente televisione.
«Sì, con questo groviglio di problematiche è fisiologico che nel mio personale bilancio ci siano luci ma anche ombre», riconosce il presidente della Federcalcio Giancarlo Abete (62 anni, ex deputato Dc dal ’79 al ’92), illustrando la sua candidatura per un nuovo mandato al vertice del football italiano (elezioni il 14 gennaio). «Dal punto di vista tecnico la soddisfazione maggiore è stata quella di promuovere la risalita della Nazionale dal sedicesimo al quarto posto del ranking dopo il fiasco del 2010 ai Mondiali del Sudafrica. Grazie anche a una politica di valorizzazione dei giovani che ha fatto fiorire nuovi campioni e che, complice la crisi, è una strada oggi perseguita con intelligenza dalle principali società. Un buon viatico per i Mondiali in Brasile del 2014. Ma sono orgoglioso pure dell’attività sociale, resa più concreta dalla capacità nel trasmettere valori di un ct sensibile come Cesare Prandelli. Mi riferisco alla testimonianza contro la mafia e la ’ndrangheta sollecitata da don Luigi Ciotti. Al sostegno alle zone terremotate. Alla campagna contro la violenza nei confronti delle donne».
Giancarlo Abete, di cosa, invece, è pentito?
«Onestamente, di nulla. Il mio rammarico è legato solo agli eventi. Il flop in Sudafrica, per esempio, dovuto alla fine di un ciclo. Ma il risultato sportivo, si sa, è sempre aleatorio. Più allarmante è l’insidia, dal giugno 2011, delle scommesse illegali. Un fenomeno vasto, con ramificazioni internazionali, che ci obbligherà ad adeguare la giustizia sportiva. La giurisprudenza in materia è purtroppo ancora in itinere. Dovremo muoverci in un’ottica sistemica, in raccordo con il Coni, la Fifa e l’Uefa».
Al di là degli ingorghi delle competenze, sembra essere in gioco la credibilità stessa del calcio. Sempre più tifosi pensano che ormai il gioco sia in prevalenza truccato e che non valga più la pena palpitare per una colossale finzione.
«Purtroppo il calcio scommesse ha cambiato gli scenari dell’illecito. Dalla casistica sono scomparse le partite comprate con le valigette nei grill delle autostrade. La criminalità organizzata ha spostato gli interessi su obiettivi più subdoli e raffinati come l’entità del punteggio. Si ingenera l’illusione di non infrangere la liceità sportiva accordandosi non su un risultato perlopiù scontato, ma sul numero dei gol da realizzare. La Uefa, con i suoi mezzi, monitora circa 30 mila partite. Noi vigiliamo con i nostri ispettori su tutti i campi. In Italia il reato di frode sportiva è stato introdotto nell’89. Ma è una legge superata, con sanzioni inferiori a quelle del doping e del traffico di droga. Oggi il business del calcio scommesse presenta vantaggi maggiori e rischi minori rispetto ad altri crimini. Occorre aumentare la deterrenza».
Anche la giustizia sportiva sta perdendo credibilità . Si procede a singhiozzo, si emettono sentenze a rate, si applicano sanzioni a campionato già in corso.
«La giustizia sportiva non ha lo stesso passo di quella penale. Può apparire a volte più severa perché, basandosi sul principio di lealtà, sanziona per esempio un’omessa denuncia che non sempre ha rilevanza in un’aula di tribunale normale. In più non dispone degli strumenti investigativi della magistratura ordinaria. E ha infine tempi diversi. È obbligata in alcuni casi ad accelerare per garantire la partenza dei campionati. In altri, per procedere, deve aspettare che la magistratura renda pubblici gli atti della sua inchiesta. Oggi è del tutto evidente che urge una riforma delle procedure. Va trovato innanzitutto un equilibrio fra il principio della responsabilità oggettiva, uno dei capisaldi delle norme Uefa, e l’esigenza che le società non paghino prezzi esagerati per colpe non proprie. Ritengo sia giunto il tempo di assegnare maggiori garanzie ai diritti della difesa».
C’è poi la piaga della violenza degli ultras che spesso si impasta con il razzismo e che i presidenti, per non alienarsi le frange estremiste della tifoseria, non ostacolano con sufficiente energia.
«Non sempre è cosi. Il presidente della Lazio Claudio Lotito è stato costretto a ricorrere alla scorta dopo aver rotto con gli ultras. Per quanto riguarda la Federcalcio, non mi sembra proprio che difettino le iniziative. Formiamo noi i delegati alla sicurezza che coordinano il lavoro degli steward negli stadi e abbiamo istituito la figura dei responsabili delle società per i rapporti con i club dei tifosi».
Un altro bubbone è proprio quello degli stadi. Perlopiù obsoleti, scomodi, inospitali, eccetto quello nuovo di proprietà della Juventus.
«Purtroppo anche in questa legislatura si è impantanata la legge sugli stadi che prevedeva un aumento di cubatura aggiuntiva. Ora attendiamo l’insediamento del nuovo Parlamento. Nella speranza di non dover continuare ad aspettare in eterno Godot…».
I tempi infiniti sono una costante anche per le diatribe fra le società. Finirà mai il tormentone sullo scudetto di cartone, quello del 2006, fra Juve e Inter?
«Ci vuole tempo. Nel calcio la memoria è resistente. Nei discorsi dei tifosi tornano tutt’oggi i fantasmi del gol annullato al romanista Turone contro la Juve. Un episodio che risale a oltre trent’ anni fa».
Ma intanto la Juve ha chiesto alla Federcalcio un risarcimento iperbolico accusandovi di aver indugiato fino a che le presunte colpe dell’Inter non sono state coperte dall’amnistia.
«È perfino superfluo specificare che la Federcalcio non ha nulla contro la Juventus. Anzi le è grata per il grosso contributo che dà e ha sempre dato alla Nazionale. Noi ci siamo semplicemente attenuti ai principi della giustizia sportiva ai quali nessuno può sottrarsi».
Capitolo arbitri: con l’introduzione dei giudici di linea non è che si siano placate le polemiche.
«Le polemiche rendono il calcio più vivo. Almeno in Italia, perché in altri Paesi la questione è meno sentita. Gli orientamenti di fondo sono due. Quello Uefa, di Michel Platini, che privilegia l’impiego di più arbitri. E quello Fifa, di Joseph Blatter, favorevole all’uso della tecnologia, con l’occhio elettronico solo sulla linea di porta per i gol controversi. Personalmente ritengo utili gli arbitri addizionali anche per creare omogeneità tra campionato e coppe europee a favore dei nostri club».
La Nazionale, come ricordava, ha riacquistato prestigio ma il nostro campionato in compenso ha perso appeal.
«Fino a un certo punto. È vero che, a causa della crisi che frena gli investimenti di tanti presidenti, qualche fuoriclasse è più attratto dall’estero. Ma per gli introiti dei diritti televisivi siamo al secondo posto nel mondo dopo l’Inghilterra. Rimaniamo indietro nella accoglienza degli stadi e nel marketing».
Ma anche la tirannia delle tv è una causa di disagio. Lo spezzatino è un vantaggio per i network ma rende troppo frammentato lo svolgimento del campionato.
«È il prezzo che di questi tempi bisogna pagare per l’equilibrio dei bilanci e per reggere la concorrenza sul piano internazionale».
Ha mai coltivato l’ambizione di diventare presidente dell’Uefa o della Fifa?
«Sarei poco lucido se coltivassi questa ambizione. Quei traguardi rimangono fuori dal mio orizzonte. Sono più che soddisfatto di essere vicepresidente dell’Uefa, dove posso autorevolmente presentare le mie proposte per il miglioramento del sistema. Recentemente ho prospettato una riforma che dovrebbe rendere più appetibile l’Europa League: il diritto di ammissione delle due finaliste alla Champions».
Il calcio è lo specchio del paese?
«Sì, risente delle stesse difficoltà. Ma ha un vantaggio. Anche dopo cinque anni di depressione economica riesce a difendere con successo il suo mercato. Magari nelle graduatorie mondiali il nostro Paese avesse lo stesso posto del calcio italiano».