Paolo Biondani, l’Espresso 4/1/2013, 4 gennaio 2013
LA RUSSA TIENE FAMIGLIA
In quella trattativa con la ’ndrangheta, l’imprenditore del Nord sa che sta giocandosi tutto. Fondatore della Blue Call, una società di call-center che nel 2010 era arrivata ad avere 872 dipendenti, tra gennaio e settembre 2011 ha aperto le porte dell’azienda al clan Bellocco di Rosarno. Mafia ricchissima e sanguinaria. Che dopo avergli offerto protezione e prestiti facili tra Calabria e Svizzera, sta «dissanguando» le casse del gruppo a Milano. Dopo appena otto mesi, la ’ndrangheta vuole costringerlo a svendere tutto. L’imprenditore è disperato. Non vuole o non può denunciare i mafiosi. Per salvare almeno un po’ di soldi, cerca un alleato importante. Un big del settore, un nome che possa fargli da scudo. Un santo protettore che lo stesso imprenditore in società con la ’ndrangheta presenta così: «È il cognato di La Russa».
È il 20 settembre 2011 quando le direzioni antimafia di Milano e Reggio Calabria intercettano il titolare della Blue Call, Andrea Ruffino, ora in carcere, mentre descrive la sua spaventosa trattativa con la mafia ed elogia «l’intelligentissimo» aiuto fornitogli da Gaetano Raspagliesi, manager di call-center tra Milano e Paternò, evidenziando che si tratta del marito della sorella del ministro della Difesa. In quel momento Ignazio La Russa era ancora al governo. Oggi l’ex ministro sta lanciando un nuovo partito nella mischia elettorale, nella speranza di favorire un’altra vittoria dell’intramontabile Berlusconi e far sentire di più il suo peso nella destra (vedi articolo a pag. 35). La Russa è uno dei non molti capi-corrente del Pdl che possono vantare di aver frequentato i tribunali come avvocato penalista anziché come imputato, arrestato o condannato. Entrato in Parlamento nel ’92 inneggiando a Mani Pulite, nella cosiddetta Seconda Repubblica ha scaricato i magistrati e in questo ventennio ha saputo costruirsi una macchina di potere in grado di condizionare affari e politica. Le critiche più aspre riguardano i suoi rapporti con Salvatore Ligresti, l’ex re del mattone e delle assicurazioni, anche lui originario di Paternò, ora sotto accusa per bancarotte miliardarie. Sotto tiro sono anche le discusse società imprenditoriali del ministero della Difesa e i legami con Finmeccanica. Meno conosciuti sono i problemi della sua cerchia familiare. E della corrente milanese che è la sua base elettorale e ha conquistato poltrone chiave nelle società pubbliche (vedi articolo in basso) che smistano appalti miliardari. Una corrente dove non sono mai mancati personaggi al confine tra reduci dell’eversione nera, ex picchiatori neofascisti, ultras del calcio violento, malavita notturna, discoteche inquisite per cocaina e perfino agganci con la mafia. Roba da far invidia alla Roma di Alemanno.
Alle ultime elezioni comunali a Milano fecero scandalo le intercettazioni di Marco Clemente, 34 anni, un duro dell’estrema destra romana, riciclato come assistente parlamentare del Pdl, diventato un fedelissimo di La Russa, fino a fregiarsi dello status di «consigliere diplomatico del ministro della Difesa». Nel 2011, quando 35 arresti colpiscono il clan Flachi per estorsioni sistematiche e traffici di cocaina nelle discoteche milanesi, le microspie svelano che in Lombardia i boss più importanti fanno votare da anni il Pdl. Peggio: un ex neofascista, Giuseppe Amato, arruolato come scagnozzo armato dalla ’ndrangheta, si lamenta che il titolare di un locale osa non pagare il pizzo («Gli do fuoco alla macchina!») e al suo fianco, al Babylon Club, c’è proprio lui, il «consigliere ministeriale» Clemente. Che «ride» della vittima e commenta: «Speriamo che muoia come un cane». L’intercettazione è del 17 febbraio 2008, campagna elettorale del dopo-Prodi, ma smette di essere segreta tre anni dopo, quando Clemente è candidato con la lista Moratti: «Non mi riconosco in quelle parole», sostiene. Fatto sta che i milanesi non lo eleggono. E dopo la trombatura, dov’è finito, il larussiano Clemente? È entrato nello staff di Angelo Giammario, consigliere regionale (indagato) del Pdl, filmato alla vigilia delle elezioni del 2010 mentre incontrava i boss "reggenti" della ’ndrangheta a Milano, Pino Neri e Cosimo Barranca (quelli del summit di mafia al circolo Falcone-Borsellino), che poi ordinavano agli affiliati di votarlo, naturalmente a sua insaputa.
Alla ’ndrangheta, nella Lombardia di oggi, si può arrivare anche partendo da storie di ordinario clientelismo. Il sistema di potere di La Russa ha da sempre i suoi punti di forza in enti pubblici come l’Aler delle case popolari o il Pio Albergo Trivulzio, l’ospizio da cui partì Tangentopoli, che gestiscono enormi patrimoni immobiliari. L’assessore regionale Romano La Russa, fratello di Ignazio, e il marito di sua figlia, Marco Osnato, nominato dirigente dell’Aler, sono indagati per un piccolo finanziamento illecito (manifesti elettorali a scrocco per il 2010 e 2011) che ha fatto scoprire un grosso giro di appalti truccati. Uno degli imprenditori favoriti, Luca Reale, che ha ottenuto dall’Aler lavori senza gara per 810 mila euro, viene intercettato il 26 marzo 2011 mentre confida alla moglie chi gli ha chiesto di pagare e perché: «Alla fine Ignazio dice, alla siciliana: quando andate dalla bottegaia, lei vuole i piccioli... Come mai? Per la campagna elettorale di Marco Osnato».
Dall’Aler, attraverso un canale comunicante di ex camerati inquisiti, si arriva dritti al Trivulzio. Vent’anni dopo l’arresto del craxiano Mario Chiesa, qui il nuovo scandalo ha travolto l’ormai ex direttore Alessandro Lombardo, un altro maresciallo di La Russa. L’ultima accusa, tra le tante, è di aver svenduto un palazzo pubblico in corso Sempione a prezzo vile, con la scusa che era occupato da un inquilino. Quale inquilino? Domenico Zambetti, assessore regionale alla Casa della giunta Formigoni. E chi è il fortunato compratore? Lo stesso Zambetti, che dopo aver beneficiato dell’auto-sconto è stato arrestato, lo scorso ottobre, con l’accusa di aver comprato 4 mila voti dalla ’ndrangheta alla modica cifra di 200 mila euro.
Gli affari del cognato Gaetano con i call center controllati dal clan Bellocco, insomma, sono l’ultima tegola che rischia di incrinare l’immagine di La Russa come uomo forte di una nuova destra "legge e ordine". L’indagine è un nuovo troncone dell’inchiesta che ha bloccato, con i 14 arresti del 24 novembre scorso, l’assalto della ’ndrangheta alle società di call-center fondate da Andrea Ruffino: lo stesso imprenditore del Nord è finito in cella perché considerato complice, oltre che vittima, della feroce cosca di Rosarno. Il suo amico manager Gaetano Raspagliesi, 68 anni, resta invece libero e incensurato: continua a gestire grandi e onesti call-center a Milano e a Paternò, il comune siciliano dove sono nate le fortune incrociate delle famiglie La Russa e Ligresti. Il giudice delle indagini, però, ha appena chiesto alla direzione antimafia di «approfondire l’inchiesta» sui rapporti tra Ruffino e Raspagliesi. Il problema è che la ’ndrangheta, secondo i magistrati, era il «socio occulto» non solo della Blue Call, l’azienda «dissanguata» dalla mafia, ma anche della Future, l’impresa che ne ha preso il posto subentrando negli stessi call-center. Sulla carta è proprio il cognato di La Russa che l’ha gestita nei mesi più caldi: nel luglio 2011 la compra da Ruffino e in ottobre la cede alla società Alveberg, dietro cui si nasconde la ‘ndrangheta (vero padrone è il latitante Umberto Bellocco, che l’imprenditore del Nord chiamava «l’invisibile»).
I conti però non tornano: Raspagliesi acquista la Future da Ruffino per 2,8 milioni e la rivende alla Alveberg per 712 mila euro. In tre mesi, insomma, ci perde tre quarti del prezzo. Un affare assurdo, in apparenza. In realtà Ruffino, intercettato, definisce il cognato di La Russa «la mia interfaccia», cioè una sorta di prestanome di lusso. In una situazione così delicata ora i giudici vogliono capire, in pratica, se anche Raspagliesi sospettava di trattare con la ’ndrangheta. Purtroppo le intercettazioni fanno temere il peggio. Ceduti i call-center, infatti, Ruffino racconta agli amici più stretti che la vendita gli è stata imposta dai mafiosi con minacce e violenze: «Ho preso le botte... Uno di quei bastardi si è alzato, davanti a Raspagliesi, e mi ha dato una botta pazzesca all’orecchio: ora non ci sento più... È venuto con il coltello, anche... E fuori c’erano altri sei di quelli collegati ai Bellocco... Meno male che con me c’era Gaetano».