Gabriele Santoro, Il Messaggero 4/1/2013, 4 gennaio 2013
I NUOVI MODI DI DIRE
Il Dizionario dei modi di dire della lingua italiana (Hoepli, 522 pagine, euro 19.90), realizzato dalla filologa Monica Quartu e dalla giornalista Elena Rossi, è uno strumento prezioso di conoscenza che stimola interesse e curiosità. Sfogliando le pagine del testo maneggevole, si compie un viaggio divertente e sorprendente alla scoperta dei significati delle espressioni idiomatiche più in voga, tipo capro espiatorio o cercare la quadratura del cerchio, e di quelle più antiche, come avere il bernoccolo (essere dotati di una particolare predisposizione per qualcosa, 1800) o l’andare a piantar cavoli (lasciare le cariche pubbliche, riferita all’imperatore romano Diocleziano che nel 305 d.C. si ritirò a vita privata in campagna).
Quartu, a vent’anni di distanza dalla prima edizione del dizionario sono emersi degli elementi di novità e quali scelte avete operato nella selezione delle voci?
«Abbiamo registrato un’evoluzione del linguaggio sempre più frammentato e sintetico con il costante ricorso ad acronimi. Pensavamo di trarre delle novità dal gergo giovanile e dalle nuove tecnologie della comunicazione, mentre per il momento hanno sedimentato poche eccezioni. Le locuzioni ormai desuete sono uscite dal dizionario e abbiamo tagliato i proverbi erroneamente associati. Inoltre abbiamo tradotto solo i modi di dire dialettali che non perdono sfumature e sapore nella versione in italiano».
In che modo si risale alla loro genesi?
«Esistono molteplici origini che spesso si collegano a eventi storici, alla mitologia classica, alle favole, all’arte, a personaggi letterari o a metafore che si ispirano ai comportamenti degli animali. Molte espressioni racchiudono pillole della storia e della cultura del nostro Paese. Il volume equivale a un punto di partenza, perché non mancano anche altri percorsi di ricerca. Sarebbe appassionante approfondire i tantissimi modi di dire che provengono dal mondo rurale dell’agricoltura e dall’artigianato, per recuperare i saperi di mestieri antichi».
È possibile darne una definizione univoca?
«È complesso, perché non costituiscono una categoria linguistica. Nel corso degli anni sono stati accostati agli studi sulle polirematiche, locuzioni il cui senso non sempre scaturisce dalla somma delle parole che lo compongono. Nascono da metafore e immagini, ma la classificazione e l’aspetto formale appaiono variabili come i tempi della diffusione legati al costume dell’epoca».
Siete riuscite a verificare sul campo l’effettiva utilizzazione e la rilevanza sociale dei modi di dire?
«Ci siamo mosse su tutto il territorio nazionale insieme al nostro staff. Con il passaparola si perpetuano con facilità nei centri abitati più piccoli. Nei grandi agglomerati urbani invece i media favoriscono una standardizzazione e determinano l’eventuale affermazione. Attraverso la trascrizione salvaguardiamo la ricchezza della tradizione orale, ma è principalmente con il parlato che si vivificano e tramandano».
Il libro si apre con il sostantivo abatino con cui Gianni Brera battezzò Rivera, elegante ma poco aggressivo nel rettangolo verde...
«Il linguaggio giornalistico usato per riportare fatti relativi alla cronaca, alla politica, alla giustizia e allo sport ci ha fornito diversi spunti: macchina del fango, Milano da bere, salire al Colle, quote rosa, mettere le mani nelle tasche, mani pulite, palazzo dei veleni, in zona Cesarini, a gamba tesa, solo per citarne qualcuno. Purtroppo però soprattutto la pubblicità e la bassa qualità del parlato televisivo, in cui abbondano senza ragione gli anglicismi, producono un progressivo depauperamento della nostra varietà lessicale e della correttezza espositiva».