Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 03/01/2013, 3 gennaio 2013
IL CASO DEI MARÒ IN INDIA I TERMINI DELLA QUESTIONE
Recentemente lei ha fornito una risposta ad un lettore inerente alla problematica dei due sottufficiali accusati dalla giustizia indiana di aver colpito mortalmente due pescatori indiani scambiandoli per pirati. Mi ha lasciato molto perplesso e allibito che lei abbia fatto il paragone con due situazioni americane che assolutamente non rispecchiano il contesto in cui hanno operato e stanno operando i nostri militari. Il Vietnam e il Cermis sono due esempi negativi di comportamento colonialista e prepotente da censurare senza alcun dubbio. I nostri non sono degli assassini incoscienti, ma militari che stavano eseguendo una missione, riconosciuta in ambito internazionale, a favore della libertà di navigazione e del libero commercio. Credo che bisognerebbe essere un po’ più cauti nel fare simili commenti, in particolar modo in questo caso dove le istituzioni indiane non si sono comportate in modo trasparente e lineare nei confronti dell’Italia tutta. Piero Vatteroni
pvatteroni2@gmail.com
Caro Vatteroni, le risponderò con un breve riepilogo degli avvenimenti. Il 15 febbraio 2012 due pescatori indiani sono stati uccisi mentre navigavano con la loro barca al largo delle coste dello Stato indiano del Kerala. I colpi sarebbero stati sparati da due sottufficiali italiani, imbarcati sulla petroliera Enrica Lexie per proteggerla dalle insidie dei pirati. I sottufficiali sostengono che i movimenti del peschereccio suscitavano sospetti, ma tutti sembrano convenire sull’ipotesi dell’errore; e le autorità italiane, d’altro canto, l’avrebbero implicitamente avvalorata offrendo a ciascuna delle due famiglie dei pescatori uccisi la somma di 10 milioni di rupie (circa 150.000 euro).
Può darsi che le autorità indiane abbiano attratto la petroliera nel porto di Kochi con uno stratagemma, ma non credo che la nostra polizia, se si fosse trovata nelle stesse circostanze, avrebbe rinunciato a impadronirsi di due stranieri su cui pesava il sospetto di un omicidio, sia pure colposo. Le cose avrebbero preso una diversa piega se i governi dei due Paesi si fossero accordati sulla costituzione di una commissione congiunta per una indagine sul caso. L’errore, dopo tutto, era stato commesso nell’ambito di una operazione di sicurezza contro un nemico comune e sarebbe stato meglio trattarlo con spirito di cooperazione. Ma in India divenne immediatamente (come sarebbe accaduto anche in Italia) un caso giudiziario. Gli indiani sostengono che il fatto è accaduto all’interno delle acque territoriali (12 miglia nautiche, pari a 22 km) o di una «zona economica esclusiva» che si estende per duecento miglia al di là delle coste; e rivendicano comunque, per ambedue le circostanze, il diritto di giurisdizione. Le autorità italiane, dal canto loro, sostengono che questo diritto può essere invocato soltanto nell’ambito delle acque territoriali e che la nave, in quel momento, era in alto mare.
I quesiti preliminari, oggi, sono quindi almeno due. Dov’era la nave? Chi avrebbe giurisdizione se la nave fosse stata nella «zona economica esclusiva»? Vi sarà su questa materia un giudizio della Corte suprema indiana e potrebbe esservi un ulteriore giudizio se l’Italia, insoddisfatta, decidesse di ricorrere al Tribunale internazionale dell’Aja. Non mi sembra che i sottufficiali italiani, nel frattempo, abbiano subito un trattamento scorretto o addirittura disumano. Mi sembra invece che certe reazioni della nostra opinione pubblica siano state eccessivamente nazionalistiche e non abbiano tenuto conto dei sentimenti dell’altra parte. Come avremmo reagito se due pescatori italiani fossero stati uccisi da militari tunisini o algerini al largo della Sicilia?
Sergio Romano