Paola Zanuttini, il Venerdì 21/12/2012, 21 dicembre 2012
PERCHÉ ABBIAMO PAURA DI UNA FINE CHE NON ARRIVA MAI
PARIGI. Si comincia proprio bene. «Jacque Le Goff, il più autorevole storico su piazza, uno che conosce il Medioevo come le sue tasche, esprime profonda stima per i giornalisti, almeno quelli bravi: «Sono intelligenti, si interessano alle buone cose, fanno domande giuste, diffondono il sapere, stimolano la riflessione e creano connessioni». Fa piacere, in questi tempi bui per la categoria. Comunque non è dell’apocalisse dei giornali che dobbiamo parlare, ma della profezia maya sulla fine del mondo, prevista per oggi. Che, forse in mancanza di notizie più appassionanti, o per una pandemia di frivolezza tetra, ha avuto più seguito del dovuto.
Aspettando davanti alla porta di Le Goff, in un palazzone moderno e vagamente sovietico della Villettte, quartiere periferico in grande fermento edilizio, serpeggia il sospetto che non faremo in tempo a sbrigare l’intervista prima di questa ipotetica fine del mondo: il professore, che allo scoccare del 2013 compie 89 anni, ci mette un’eternità ad aprire. Si muove con il deambulatore. Dice che ha una strana malattia genetica: «Mi fa perdere l’equilibrio appena trovo un ostacolo, anche minuscolo, sotto i piedi. Sono due anni che non esco di casa».
Ma quando si siede nello studiolo spoglio e senza tracce del passato (che è racchiuso nelle cataste di libri, molti dei quali scritti da lui), la vecchiaia, la malattia genetica e tutte le altre crudeltà del tempo se ne vanno a quel paese. Conviene aggiungere che Le Goff non porta gli occhiali, ci sente benissimo e passa dal francese all’italiano con estrema disinvoltura. Però si vede che è un uomo all’antica. Perché, prima di parlare, pensa. E quindi tace, per qualche istante. Sulla profezia maya, il silenzio è accentuato. La liquida così: «L’apocalisse ha continuato a creare terrore e speranza fino al XVI secolo, poi l’interesse è scemato. Ci voleva una crisi globale come questa perché si andasse a ripescare l’idea della fine del mondo, ma non più nel cristianesimo: nella religione maya».
Per andare controtendenza, partiamo dell’aspetto gioioso dell’apocalisse.
«Cominciamo a dire che l’idea dell’apocalisse è stata a lungo considerata blasfema, perché la fine del mondo andava lasciata alla segreta volontà di Dio. Ma è un fatto che, accettato il concetto di creazione del mondo, alcuni cristiani si interrogassero sulla sua fine. La questione irrompe nella storia con la diffusione di un documento attribuito all’apostolo Giovanni, l’Apocalisse, appunto, che in realtà fu scritto, nell’isola greca di Patmo, da un monaco chiamato probabilmente Giovanni, nell’ultimo decennio del I secolo, quando l’apostolo era già morto. Fu accettato e integrato nel Nuovo Testamento, ma con un’esigua maggioranza, solo in un concilio del IV secolo. Ma in tutto il Medioevo la sua autenticità fu contestata».
E perché è diventato il pensiero forte di quei secoli?
«Perché era affascinate. Era la rivelazione, nel senso greco della parola, di quello che sarebbe successo alla fine del mondo. C’è una fase terribile segnata dall’apparire dell’incarnazione di Satana, l’Anticristo: che libera genti pagane e sanguinarie, il popolo di Gog e Magog – relegato da Gesù nell’estremo Nord-Est della Cina con una muraglia, che non c’entra niente con quella cinese – e lo scatena nel mondo a compiere atrocità. Ma poi l’Anticristo è finalmente vinto, al suo posto, ritorna sulla Terra il Cristo e, anche se il Cristo non torna, l’umanità gode di un lungo periodo di pace, prosperità e gioia prima del giudizio universale. Il millenarismo è questo: l’attesa di un lunghissimo tempo di benessere mai conosciuto prima».
Incantevole prospettiva, ma perché poi è prevalsa la visione più dark dell’apocalisse?
«Alla Chiesa faceva comodo trasferire il terrore suscitato da questo evento misterioso nella paura dell’interno. Serviva a tenere i fedeli lontano dai peccati o, almeno, a farglieli confessare e scontarli con la penitenza. Sul finire del XII secolo, il cistercense Gioacchino da Fiore invita a concentrarsi di più sugli aspetti di speranza dell’apocalisse: il millenarismo, che esisteva già in maniera diffusa e confusa, diventa una vera credenza e devozione, dopo lui. Ma papa Innocenzo III condanna le sue idee. Molti secoli prima, nel 590, nella Roma devastata da una memorabile inondazione del Tevere e dalle sue conseguenze, è eletto papa Gregorio Magno, il quale afferma che il cataclisma segnala l’avvicinarsi della fine del mondo».
Un cataclisma elettorale?
«È una chiave di lettura. Ma sa, gli accessi apocalittici erano abbastanza frequenti. Trattandosi di paure irrazionali, bastava un bisbiglio per creare un clamore: nel decennio 1250-1260 era continuamente annunciata e le strade di città e villaggi si riempirono di flagellanti».
Non sembrano meccanismi di massa tanto diversi da quelli di oggi.
«In tutte le società e in tutte le epoche, l’umanità ha bisogno di mantenere un contatto tra il reale e l’immaginario. Veda il più recente successo della fantascienza, non solo fra gli sprovveduti».
La narrazione dell’apocalisse serviva a esorcizzare la paura, come le fiabe per i bambini?
«Io direi che l’eccitava. Poi, tutto questo terrore dell’anno Mille non è mai esistito, per il semplice fatto che la stragrande maggioranza delle persone non sapeva che era l’anno Mille. Però il racconto dell’apocalisse metteva ordine nei sentimenti: da una parte l’angoscia, dall’altra la speranza. E nutriva enormemente l’immaginario: le miniature del Beatus di Saint-Sever sono il maggiore capolavoro dell’arte medievale».
E poi che fine ha fatto – maya a parte – la fine del mondo?
«Gli ha dato un bei colpo, fra il XIV e il XV secolo, la Guerra dei Cent’anni. Come pure le battaglie combattute in Italia mentre i papi erano ad Avignone e i signori dell’epoca ne approfittavano per tentare di mettere le mani sugli Stati pontifici. Nella cristianità si diffuse l’impressione che l’apocalisse fosse già arrivata, anche se non proprio quella di Giovanni. Poi la Riforma l’ha depennata dal Nuovo Testamento e i protestanti non ci hanno creduto più. Grazie ai progressi della scienza, soprattutto dell’astronomia che rimpiazzava astrologia e magia, si affermò un certo scetticismo sulla prossimità della fine del mondo: se si era scoperto che l’universo durava da tanto, era ragionevole supporre che sarebbe durato altrettanto a lungo».
Non è sparita perché era sparito il mondo che ci credeva, ovvero quello medievale?
«No, su questo bisogna essere molto chiari. Sto scrivendo un libro in cui spiego che il concetto di Rinascimento era limitato a una élite ristretta. Per la maggioranza delle classi inferiori non cambia niente dal Medioevo fino alla grande industrializzazione inglese del 1700 e alla diffusione delle idee democratiche della Rivoluzione francese».
Lei ha scritto che nella fascinazione per l’apocalisse traspare un bisogno di giustizia. Giustizia sociale?
«I poveri sapevano che nel giudizio universale avrebbero avuto più possibilità dei ricchi di finire fra gli eletti, ma intanto dovevano sopportare l’ingiustizia in terra. Il Millennio rappresentava un sogno democratico e di uguaglianza, perché quella pace e quella prosperità sarebbero state di tutti».
Quindi, il comunismo è millenarista?
«È il pensiero politico millenarista più importante del XX secolo, Il nazismo no, ma sarebbe meglio chiedere agli psichiatri. Nel nazismo c’era qualcosa che si trova in certi schizofrenici: la semplice passione della morte. Come nel terrorista norvegese Anders Behring Breivik. Ho visto qualche sua immagine in tv, per uno storico sono strumenti davvero insufficienti, ma malgrado tutto mi son detto: questo è ipnotizzato dalla morte».
E Al Qaeda è millenarista?
«Penso che negli estremisti teorici dell’islamismo ci sia un pensiero millenarista. Li detesto, ma non credo siano animati solo dalla volontà di distruggere: quello che per noi è orrore per loro è qualcosa che dovrebbe consentire l’avvento di un mondo migliore».
Ultima domanda su vari ed eventuali millenarismi: il femminismo?
«Sì, un certo ideale trascendente c’era. Ma credo anche che la cultura occidentale, segnata giocoforza dal cristianesimo, abbia qualche problema con la donna. Trova ancora difficile superare l’opposizione fra Eva e Maria, il male e il bene: e i maschi non ne escono. Eppure lo stesso Gesù si era posto il problema di elevare il ruolo femminile nella sua nuova religione, a partire dalla Madonna. La Trinità è composta da quattro figure. Come i tre moschettieri: tre più uno».
È vero che è diventato un medievalista perché da piccolo le piaceva tanto Ivanhoe di Walter Scott?
«Certo, magnifico romanzo. Ma c’entra anche un ottimo professore del liceo, Henri Michel. E un motivo più professionale: quando cominciai a lavorare, il Medioevo non era tanto studiato, e c’era un’abbondanza di fonti autentiche e inesplorate da consultare».
Futuro: nel 2030 l’Asia supera Europa e America insieme. La fine di un’epoca?
«Non so dirlo, il passato si definisce molto tempo dopo che è finito. Però tre elementi potrebbero far supporre che siamo all’inizio di un nuovo periodo per umanità. In primo luogo, la comunicazione e la mondializzazione: non c’è più un posto sconosciuto o veramente isolato al mondo. Poi, indubbiamente, la rivoluzione informatica».
Ma se lei non usa né internet né il computer...
«Mi farebbe sprecare un sacco di tempo, ma so che perdo anche delle cose preziose. Il terzo elemento di un’eventuale età nuova sono le istituzioni internazionali, come l’Onu. Che hanno un potere ancora limitato, ma ci sono».
Come è cambiato lo sguardo sul futuro dal Medioevo a oggi?
«Allora era una visione apocalittica e millenaristica. Oggi, nel mondo occidentale e non solo, l’avvenire ha un carattere evidentemente più scientifico, spaziale, robotico, ma si è creato anche un immaginario politico: l’evoluzione auspicata da molti, i migliori, va verso la democrazia, la migliore organizzazione sociale e politica di cui è capace l’umanità».
Paola Zanuttini