Beppe Sebaste, il Venerdì 21/12/2012, 21 dicembre 2012
QUANDO IL SIGNOR NESSUNO FERÌ IL CORPO DEL RE
MILANO. Ricordo il primo istante in cui vidi l’immagine: Berlusconi con la bocca insanguinata e lo sguardo truce, come un pugile ferito. Sembrava un fotomontaggio, la parodia di un film di zombi. Cliccai su un giornale on line per trovare conferma, e rividi quel primo piano che era già un’icona pop, un evento estetico prima che politico e di cronaca. Abituati al flusso continuo di pose, studiate e intinte di cerone, il volto offeso e per questo inaudito dell’uomo più potente d’Italia, intriso di sofferenza e di odio, e soprattutto di sangue rosso e comune, ci colpiva più della più stramba installazione d’arte, più del meteorite di Maurizio Cattelan che schianta e mette in ginocchio papa Wojtyla, o del cavallo conficcato nel muro. Il volto di Berlusconi era per una volta nudo, un volto che soffre (s’offre), utopia di una comprensione (una conversione?) che non sarebbe ahimè mai avvenuta. Anzi, la paura che provai guardando quelle foto era per la violenza ulteriore che quel volto sembrava promettere, paura di scorgere nella smorfia della sofferenza un soffio algido di vendetta. (Più tardi mi fece paura il non riuscire a esprimere liberamente il flusso di pensieri e associazioni di idee che quella sequenza di immagini mi suscitava, paura della mia autocensura; come se la politica e soprattutto il pensiero, forieri di conflittualità, dovessero cessare in forza di quell’evento).
Abbinata a quella del potente insanguinato cogli occhi stretti a fessura, anche dell’aggressore dilagò in tutto il mondo una foto che ne fissava i lineamenti bonari stravolti dallo spasmo per divincolarsi dalla folla, gli occhi atterriti – da sé, dal proprio atto, ma anche dall’altro, come se fosse al cospetto della Medusa.
Alla fine di un comizio gremito, nonostante le guardie del corpo, un uomo assolutamente ordinario aveva gettato in faccia a Berlusconi un souvenir (!) del Duomo di Milano. Sotto il peso e la pressione dei corpi che lo sommersero, quando gli agenti lo portarono via salvandolo dalla piazza, l’uomo aveva ripetuto una frase indimenticabile: «Non sono niente, io non sono nessuno».
Lessi che era un ingegnere di 42 anni (in realtà aveva solo il diploma di perito elettronico), in cura da anni per problemi psichici, e che quindici anni prima aveva avuto un momento di relativa notorietà per aver brevettato dei quadri musicali: «Coniugando la passione per l’elettronica con il gusto per l’arte astratta, M.T. realizzò piccoli quadri che si illuminavano di luce colorata diversa ogni volta che nella stanza in cui erano appesi si ascoltava della musica». Che l’aggressore avesse rapporti con l’arte astratta – quella che il fido ministro dei Beni culturali Bondi, come aveva ripetuto spesso, e a volte addirittura con candore, non capiva e disprezzava – era forse un’aggravante. Malgrado la sua arma improvvisata a me sembrava inerme, mi sembrava anzi la vittima assoluta.
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Tre anni dopo cammino a Milano nella piazza del Duomo, che non è solo il davanti sterminato invaso dai piccioni, quello di Totò e Peppino col colbacco nel famoso film, ma è anche il lato sinistro col severo Arcivescovado, il lato destro con le vetrine della Rinascente e degli stilisti, e si chiama Piazza del Duomo anche lo spazio sul retro, dove l’antica chiesa di S. Maria Annunziata in Camposanto fronteggia l’abside del Duomo. Mi siedo qui, in un caffè fighetto ma riscaldato, vicino al negozio di articoli sportivi e magliette delle squadre di calcio, Milan compreso, tra il negozio Intimissimi e la libreria San Paolo dove, sotto l’insegna Football Team, Silvio Berlusconi la sera del 13 dicembre 2009 stava in piedi con la faccia ferita tra le auto della scorta a scrutare nel buio. In questa parte di piazza arrivano nuvole di suoni ovattati che ricordano il brusio delle spiagge d’estate: è la folla solitaria dell’ininterrotto shopping nella luce livida di un sabato d’inverno, dispersa in mille rivoli di solitudini, ma omogenea nei consumi; e penso alla folla adorante che si radunò quella sera di dicembre ad ascoltare Berlusconi alla festa del Popolo della libertà. Fu un comizio intenso e aggressivo, inaspettatamente contestato da un gruppetto di giovani: anche nella folla più uguale possono esserci variabili impazzite. Quando il presidente scese dal palco sul retro, dove si formò il capannello di intimi e audaci, nel brulichio di braccia e di corpi spuntò per caso Massimo Tartaglia, che si trovò di fronte al Presidente. Il modellino del Duomo l’aveva comprato lungo la strada... Sappiamo come è andata: Massimo Tartaglia è colui che ha lanciato contro il re un giocattolo, come un bambino contro il padre o la madre. A questo si riducono la protesta politica e la critica? Il fatto che, come qualcuno scrisse, «siamo tutti Massimo Tartaglia», penso che non significasse propensione alla violenza, ma la messa al bando della politica. Si è infantili oppure malati, e ai bambini si danno le sculacciate, ai matti le pasticche: così, da anni, viene gestito il conflitto, o quel poco che emerge, mentre la politica abdica a se stessa e alla conflittualità. Ma ogni tanto trovo su Internet questa domanda carica di dietrologie: «Che fine ha fatto Massimo Tartaglia?». Nessuna fine, ma una quotidianità umile e ordinaria, fatta di rinunce, libertà vigilata, degenza e cura in una comunità terapeutica, dichiarazione di «pericolosità sociale», obbligo di residenza in un comune dell’hinterland milanese (i domiciliari), frequentazione obbligatoria di un centro diurno psichiatrico. Nel frattempo (Galeotto fu Tartaglia), a causa del suo gesto Berlusconi ha incontrato alla clinica San Raffaele, dove si curava la bocca, l’igienista dentale Nicole Minetti, che ha intrapreso da allora una certa carriera politica e dalla quale consegue parte delle vicende che hanno portato allo scandalo del bunga-bunga e al processo per concussione del presidente, forse addirittura alle sue dimissioni. E al suo conseguente recentissimo revenir, come in francese si dice dei fantasmi: revenant, colui che ritorna (mi piacerebbe molto sentire cosa pensa lui di questo).
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In effetti non sono andato a Milano soltanto sul luogo raffreddato del delitto, ma per far visita a Massimo Tartaglia a Cesano Boscone, paese per certi versi struggente alla periferia di Milano, dove lui vive. La sua storia mi ha distratto, per empatia, dalla stesura finale di un romanzo horror, dandomi il desiderio di raccontarla. (Poi ho pensato che in fondo non sono opere dissimili – entrambe, l’horror soprattutto, descrivono l’iperrealtà del nostro presente). Assolto il 29 giugno 2010 perché giudicato non imputabile, Massimo Tartaglia sta ora molto meglio, e dice di sé: «Nella malinconia e nelle mie restrizioni, io sto bene». La sua condizione di libertà vigilata e di «pericolosità sociale» mi avevano impedito di incontrarlo. Ci siamo scambiati lettere sui suoi quadri («stile Pollock», come dice lui), sulla mostre che visitavo io e quelle che visitava lui col centro diurno («Renoir a Pavia, poi pranzo in un agriturismo»), sulla speranza di abbassare il dosaggio dei suoi farmaci, sui laboratori che frequenta, dalla lavorazione della creta alla psicoterapia di gruppo. L’ultima udienza ha sancito che il sabato e la domenica è libero di girare nei comuni di Milano e di Cesano Boscone (tutto il resto della provincia, e del mondo, escluso).
Eccomi con Massimo Tartaglia in via Dante, nell’unica strada pedonale e lastricata di porfido del minuscolo centro storico di Cesano, silenziosa come una domenica svizzera, in un bar che offre una varietà di caffè con la cioccolata che beviamo parlando di fronte a due vetrine, quella dell’estetista Le vie del benessere, col manifesto che reclamizza L’alba della bellezza; e quella del negozio di abiti e confezioni con dei cappotti grigi appesi.
C’è un sole pallido da qualche parte, come la voce pacata di Massimo, sfibrato dai farmaci, che parla con parsimonia, nessuna parola inutile. Non ha mai fatto politica. Ma nel periodo precedente al suo gesto «sentiva di vivere come un film nella realtà, un film della realtà»; serate passate a indignarsi davanti ai talk show politici in tv. Riteneva come tanti che il responsabile della spettacolarizzazione della politica fosse lui, Berlusconi, un leader immorale che faceva cose indegne del suo ruolo istituzionale e internazionale, come certe battute contro le donne, le offese agli italiani quando diede dei coglioni a chi non lo votava. Era come se il successo, la ricchezza, l’arroganza e il disprezzo delle regole che Berlusconi ostentava, lo avessero sfregiato, perché Massimo Tartaglia è, all’opposto, un onesto e talentuoso perdente la cui vita è costellata di insuccessi, dal voto minimo alla maturità (per problemi di salute), al non trovare lavoro.
Verso i trent’anni costituì con un amico una società di assemblaggio elettronico che si occupava anche di riparazioni di macchine timbra biglietti, nastri inchiostrati, schede elettroniche, con la supervisione del padre. Nel 2005 registrò il brevetto italiano di invenzione industriale coi suoi «quadri musicali», esteso nel 2006 all’Europa: «Il peggiore investimento della mia vita» dice. Oggi quei brevetti sono scaduti, ma considera i suoi quadri musicali «una pacchianata superata dalla tecnologia: non so nemmeno come ho fatto a crederci tanto allora, forse per via del riconoscimento avuto dall’Obiettivo Ict (del Politecnico di Milano), che mi selezionò dandomi l’input per proseguire. Ma senza investitori è stato tutto fumo e niente arrosto».
In dicembre 2009 aveva abbandonato la «presa della Pastiglia», scherza Tartaglia, era quindi scoperto e ipersensibile. Quel giorno era nuvoloso, e lui depresso e nervoso, la ragazza conosciuta da poco gli aveva dato buca, era andata in montagna con un altro. Seppe dalla tv dell’adunata per il tesseramento del Popolo della Libertà, e quasi senza accorgersene si incamminò verso il centro. C’era una musica a volume altissimo che intontiva, come nelle vendite multilevel che aveva conosciuto frequentando corsi e incontri di tecniche di vendita, le stesse adottate nei comizi. Ma si stufò presto di ascoltare, stava per andarsene alla metro facendo il giro del Duomo quando lo richiamarono le urla dei contestatori. Tornò passando dietro al palco, di fianco all’abside del Duomo. «Non l’avessi mai fatto: c’era la macchina del presidente già disposta per andarsene, e Berlusconi giù dal palco a farsi un bagno di folla, dare la mano alla gente, proprio verso di me; e io, lì in mezzo alla folla, la musica che inneggiava al Popolo della Libertà portata all’apice, io mi sono suicidato...».
Tartaglia scrisse in seguito una lettera di scuse a Berlusconi, dicendo tra l’altro di avere compiuto quel gesto come atto simbolico nei confronti di una persona che avrebbe potuto essere suo padre. «Una sorta di suicidio rivolto alla causa presunta dei miei problemi».
Sulla main Street di Cesano Boscone, che sfocia sulla Vigevanese, una strada trafficata e rumorosa coi marciapiedi larghi, supermercati con parcheggio e grandi pizzerie, Massimo mi confida il suo sogno di fare volontariato al Centro recupero animali selvatici del Wwf: «Dare un aiuto ai più deboli, a chi è in difficoltà, per esempio aiutare a restare nella natura un rapace sparato a cui abbiano rotto una zampa». Il problema è che è ancora in libertà vigilata e il servizio sarebbe in un bosco fuori dal suo comune di residenza. Mi parla di un’aquila reale cui un cacciatore aveva sparato alle ali, che «invece di essere stata soppressa è nella gabbia didattica, come un pollo, senza un’ala, anche se le zampe e gli artigli sono ancora robusti».
Nel nuovo parco Pertini, una grande distesa d’erba cinta da alberi che mi ricorda il parco di Blow up, mentre i bambini giocano sui prati, Massimo continua a raccontarmi: «Subito dopo il mio gesto, i nostri sguardi si sono incrociati una volta, quello di Berlusconi era molto minaccioso... In Questura ho ripetuto che non ero nessuno, poi sono scoppiato a piangere».
Beppe Sebaste