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 2013  gennaio 03 Giovedì calendario

L’AMERICA FA I CONTI CON LO SCHIAVISMO PER RITROVARE LO SLANCIO

[Dietro il revival dell’epopea dell’emancipazione degli schiavi neri lo sforzo di superare le ansie e le divisioni dell’era del “fiscal cliff”] –
L’ America ha appena distolto lo sguardo dall’«abisso fiscale», il pacchetto di tasse e tagli automatici alla spesa pubblica che sarebbero scattati a Capodanno senza l’intesa, in extremis, tra Barack Obama, Senato, a maggioranza democratica, e Camera, controllata dai repubblicani.
Accordo precario, quello sul «fiscal cliff» – gli Stati Uniti tra stato sociale e difesa spendono troppo e in pochi mesi, o riducono il budget o si vedono il rating bocciato dalle agenzie arcigne- ma almeno non si è caduti nel l’abisso fiscale. Diceva il filosofo Nietzsche che quando fissiamo a lungo l’abisso, l’abisso a sua volta fissa noi. Nella vicenda del «fiscal cliff» l’America s’è riconosciuta nel crepaccio come in uno specchio. Ed è perciò assai curioso e interessante, che nei giorni di festa natalizi, con la grande nazione sull’orlo del disastro fiscale, cinema e cultura siano tornati ad interrogarsi sull’abisso morale più tragico mai contemplato nei quasi due secoli e mezzo di storia del paese: la schiavitù.

Il regista più noto, Steven Spielberg, lancia il suo straordinario film «Lincoln», dedicato al presidente che vinse la Guerra Civile ed emancipò gli schiavi. Il regista più anticonformista, Quentin Tarantino, rispolvera la sintassi dei nostri «spaghetti western» alla Sergio Leone in «Django Unchained», l’epica degli schiavi fuggiaschi. E per chi volesse invece davvero fissare i volti, i vestiti stracciati, la sofferenza, le umiliazioni degli uomini, donne e bambini venduti e comprati come oggetti nel paese della libertà, ecco i ritratti da «Envisioning Emancipation», 150 fotografie tra il 1850 e il 1940 raccolte da Deborah Willis e dalla storica dello schiavismo Barbara Krauthamer.

Perché l’America, alla vigilia del nuovo mandato del primo presidente afroamericano, Obama, con cittadini eredi degli schiavi a dirigere giornali, tv, università, armate, grandi aziende, brillando nello sport, nello spettacolo, nel costume, decide di riguardare nell’abisso morale della schiavitù, dopo la sanguinosa guerra civile 1861-1865, che costò per abolire l’infamia più morti di tutti gli altri conflitti Usa, dall’Indipendenza all’Afghanistan? La spiegazione è nella faida feroce che oppone, da una generazione, il paese, in politica, in cultura, nella società. L’America «rossa» dei repubblicani nemica dell’America «blu» dei democratici, il partito liberal dell’Asinello contro il partito conservatore dell’Elefante. L’identità ostile al nuovo delle aree centrali, rurali e isolate opposta al gusto cosmopolita e universale delle coste sull’Atlantico e sul Pacifico, nelle metropoli.

Un quarto di secolo fa lo studioso Bill Schneider analizzò due contee in California, Marin County e Orange County. Stessa popolazione, stesso reddito, stessa lingua e religione, ma Marin era progressista e radicale, Orange reaganiana e moderata. Perché? Perché gli Usa sono divisi più dalla cultura che dall’economia, nella stessa classe sociale, immigrati o capitalisti, idee e valori dividono più dei soldi.

Ecco perché la Guerra Civile e la schiavitù, prima radicale divisione del paese che s’era ribellato unito al Re d’Inghilterra, fanno riflettere e sono d’attualità. Spielberg, Tarantino, Willis e Krauthamer sembrano chiedere, a se stessi e all’opinione pubblica: «Se il paese ha saputo riemergere solidale dalla guerra civile e dal mercato di esseri umani, è allora possibile trovare solidarietà anche nell’America del XXI secolo?». Ciascuno si interroga a modo suo, Spielber saggio, Tarantino scatenato, Willis e Krauthamer accademici.

La prima sorpresa è proprio il regista principe di Hollywood, Spielberg: «Lincoln» è un film politico, nel senso nobile del genere, da Francesco Rosi a Wim Wenders. Il presidente Abraham Lincoln nel 1865, a poche settimane dalla vittoria contro gli stati ribelli del Sud, decide di far approvare al Congresso il XIII Emendamento alla Costituzione per abolire per sempre la schiavitù. Lincoln e il suo ex rivale e poi Segretario di Stato Seward temono che, una volta riunito il paese dopo la resa dei Confederati, il proclama di Emancipazione che aveva liberato gli afroamericani sia considerato una misura di guerra, d’emergenza, mentre il Sud escogita cavilli per rimettere al lavoro nei campi gli ex schiavi. Solo la protezione assoluta della Carta Suprema può affermare –almeno in linea teorica, in pratica ci volle un altro secolo fino a Martin Luther King e al movimento per i diritti civili- la libertà per tutti.

Lincoln però, come i grandi leader politici di ogni tempo, combatte con gli estremisti del suo partito, che vorrebbero non solo dire no alla schiavitù ma anche affermare subito parità tra le razze: nobile e giusta posizione, ma che il presidente sa non passerà mai nell’America arcaica del XIX secolo. Neppure il Nord che manda a morire i suoi figli per eliminare il morbo della servitù forzosa, approva l’idea che bianchi e neri possano sposarsi, convivere, amarsi. Il Lincoln di Spielberg però è un eroe, e di lì a pochi giorni, cadendo assassinato, un martire di quella che il nostro presidente Napolitano chiama «buona politica».

Saper guardare agli ideali come a stelle fisse, ma navigare con l’occhio alle acque malsane e infide della realtà. Se il presidente Obama avesse cercato i voti sul «fiscal cliff» come Lincoln comprò, uno per uno, i voti necessari al XIII emendamento nell’opposizione democratica, i siti web ne chiederebbero «impeachment» e dimissioni, il linguista Chomsky e il regista Moore lo impalerebbero come «corrotto e colluso».

Quando vedrete «Lincoln», o se leggerete il saggio storico del 2005 da cui è tratto - «Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln», opera della studiosa Doris Kearns Goodwin - penserete alla politica di oggi, in America e in Italia, alla mancanza di leader saggi e astuti, alla pletora di politicanti chiassosi, alle accuse di corruzione lanciate ad arte contro i riformisti, per mascherare vecchie e giovani volpi. Da Oscar, il perfetto Lincoln, paterno e ironico, dell’attore Daniel Day-Lewis.

Tarantino arriva al tema alla sua maniera, linguaggio estremo, sarcasmo, irriverenza, un approccio allo storia che in «Bastardi senza gloria», dedicato agli anni di Hitler, aveva fatto cilecca, ma che nella realtà de «Le Iene» e nella saga di «Kill Bill» racconta il presente con frenetica precisione. Django è schiavo liberato che si unisce a un cacciatore di taglie, in un Sud americano dove tutto è azzardo, rissa, violenza senza regole né amore. È l’Inferno della storia, contrapposto al Paradiso di Spielberg. È l’America caduta ieri nell’abisso della guerra civile, oggi sull’orlo dell’abisso fiscale e culturale. Un paese che si perde e non sa ritrovarsi.

Che sia il ricordo degli spaghetti western, scuola della stella di Clint Eastwood arrivata poi alla fama politica della Convenzione repubblicana 2012, nel partito che già fu di Lincoln, la dice lunga sui tortuosi sentieri della storia, della libertà e dell’America.