Ugo Bertone, Libero 2/1/2013, 2 gennaio 2013
MANOVRE DA 40 MILIARDI COL FISCAL COMPACT
[Il patto voluto dalla Merkel per abbassare il debito degli Stati dell’eurozona sarà il cruccio fondamentale del governo che uscirà dalle urne. Chiunque vinca avrà pochissimi margini per ridurre la pressione fiscale] –
Il tema è incredibilmente estraneo alla surreale campagna elettorale cui stiamo assistendo, eppure di fronte ad esso il resto sono chiacchiere da contorno: il Fiscal compact entrato in vigore ieri diventerà una tassa che ci siamo impegnati a versare per ridurre il nostro rapporto debito/Pil. Una sberla che, dal 2014, varrà circa 40 miliardi di euro: cifre vicine alla famosa manovra Amato del ’92, e che ci toccherà, salvo modifiche o rinegoziazioni, ogni benedetto anno.
Non tutto è ancora fiscalmente perduto: pur di venire incontro ai diktat della signora Merkel l’Europa ha infatti inventato la Costituzione del gambero. Prima la norma «volontaria», poi, entro cinque anni, si cercherà di inserire l’accordo nella carta costitutiva dell’Unione Europea. Già, come ci ricorda autorevolmente il professor Giuseppe Guarino, il Patto di Stabilità che fissa l’obiettivo del pareggio di bilancio non è parte integrante del Trattato dell’Unione Europea. Al contrario, la carta fondamentale della Comunità, sottoscritta da tutti i 27 Paesi che aderiscono alla Ue, Gran Bretagna e Bulgaria comprese (contrarie al Patto) resta il Trattato di Lisbona del 2009 che recepisce il trattato di Maastricht: l’aver imposto l’obbligo del deficit zero è una forzatura rispetto alla lettera e allo spirito della Costituzione. Problema che non è certo sfuggito ai fautori dell’austerità alla tedesca. Non a caso, per dare al patto di Stabilità il necessario rango giuridico, si è ribadito «l’obiettivo» di incorporare il nuovo trattato nella vigente legislazione europea.
Non ha alcun senso, insomma, attribuire la patente di idoneità europea solo a chi si conforma ai dogmi previsti dal patto di Stabilità. L’adesione al trattato, si sa, è stata imposta di fatto da un argomento irresistibile: solo i Paesi che avranno introdotto la regola che impone il pareggio di bilancio nella legislazione nazionale entro il primo marzo 2014 potranno ottenere eventuali prestiti da parte del Meccanismo Europeo di Stabilità. Naturalmente dopo aver fornito altre garanzie, non ben definite, ma che leggere non devono essere visto che finora nessun Paese, compresa la Spagna, ha avanzato una richiesta al Mes. Frau Merkel ha realizzato un capolavoro politico: senza metter sul piatto un solo quattrino ha imposto la linea del rigore ai partner del sud Europa. Di questo passo, l’avanzata verso l’unione fiscale e, in prospettiva, politica, non costerà un euro alla Repubblica Federale, salvo quelli impiegati per fare shopping negli Stati in ginocchio. Nel frattempo la forbice tra i tassi garantirà uno spread a vantaggio dell’economia tedesca. Anche perché, a fronte dei vincoli cui si è sottoposta la finanza pubblica italiana o quella spagnola, c’è l’assoluta libertà di movimento dei capitali che, come si è visto in più occasioni in questi due anni, possono mettere in ginocchio Btp, Borsa e, soprattutto, le possibilità di credito per l’economia.
Non è esatto, ha ribadito più volte Mario Monti, attribuire la colpa dell’austerità italiana agli altri. Le decisioni dell’ultimo anno andavano prese comunque per evitare la voragine dei nostri conti. Ora, come si ripete da mesi, si può passare al capitolo due dell’agenda, dedicato alla ripresa. Peccato che la formula non funzioni. Come era facile prevedere. Basti, al proposito, quel che cinque premi Nobel dell’economia hanno scritto nel marzo scorso a Barack Obama per scongiurarlo di non imitare la sciocchezza che l’Europa stava preparandosi a fare: «Inserire nella Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio – recita la lettera - avrebbe effetti perversi in caso di recessione. Nei momenti di difficoltà economica diminuisce il gettito fiscale e aumentano alcune spese tra cui i sussidi di disoccupazione. Chiudere ogni anno il bilancio in pareggio aggraverebbe le eventuali recessioni» . Proprio quel che è accaduto nel Bel Paese. E che potrebbe ripetersi, in peggio, se non si cambierà registro. Perché «l’anno di governo Monti è stata una bolla, positiva finché è durata per gli investitori, ma che oggi si è sgonfiata. E non ci vorrò molto perché gli italiani e gli stranieri prendano atto che negli ultimi dodici mesi è cambiato poco o nulla salvo il fatto che l’Italia è precipitata una profonda depressione ».
A sostenerlo non è uno sherpa del Pdl, bensì uno dei più autorevoli commentatori del Financial Times, Wolfgang Münchau, già direttore dell’edizione tedesca del quotidiano. Che cosa deve fare l’Italia per sfuggire al baratro. «Per prima cosa –ha scritto il columnist il 9 dicembre, dopo le dimissioni di Monti – archiviare la politica dell’austerità». Seconda cosa: «Opporsi ad Angela Merkel. Monti ha sì cercato di far sentire un po’ la sua voce nel meeting di giugno ma non è mai stato in grado di confrontarsi con la cancelliera sull’unica cosa che contava: senza una qualche forma di condivisione del debito è difficile pensare che un Paese con un rapporto debito/ pil del 130 per cento possa restare a lungo nell’eurozona» . Di questo passo, insomma, non sarà necessario inserire tra cinque anni il patto di Stabilità nel Trattato fondamentale dell’Eurozona. Meglio tener conto, finché si è in tempo, del consiglio del professor Guarino: buttatelo nel cestino, prima che crei altri danni.