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 2013  gennaio 02 Mercoledì calendario

Se non fosse stata in pericolo grave la vita di Andrea Calevo, ci sarebbe da ridere. Da un lato il cocktail di arroganza e puerile sicumera dei balordi riuniti in banda, che poteva in qualunque momento precipitare in un gesto irreparabile, dall’altro lato la faciloneria del loro agire, paragonabile, oltre che alla banda Bassotti o all’armata Brancaleone, ai due protervi e instancabili cattivi di «Mamma ho perso l’aereo»

Se non fosse stata in pericolo grave la vita di Andrea Calevo, ci sarebbe da ridere. Da un lato il cocktail di arroganza e puerile sicumera dei balordi riuniti in banda, che poteva in qualunque momento precipitare in un gesto irreparabile, dall’altro lato la faciloneria del loro agire, paragonabile, oltre che alla banda Bassotti o all’armata Brancaleone, ai due protervi e instancabili cattivi di «Mamma ho perso l’aereo». Torvo e fiero dei suoi trascorsi il capobanda Pierluigi Destri, imprenditore settantenne, smanioso di specchiarsi nell’immagine di duro suo nipote Davide Bandoni, il ventiseienne che su Facebook si fa ammirare come samurai dei poveri, con un’accetta al posto della katana. E poi gli albanesi intorno ai vent’anni Simon Halilaj e Fabijon Vila, uno con la faccia di chi studia da adulto e l’altro che sembra la versione da strada di Franco Fiorito. Gli inquirenti ritenevano che fossero implicate almeno sette persone, ora si parla di indagini su una ventina di nomi, una sorta di allegra compagnia che si allarga per un sequestro come per una festa: posso portare anche mio cugino? Ma sì, porta anche lui, tanto alla manovalanza diamo poco e quello soldi ne ha parecchi. Proprio per questa balorda improvvisazione Andrea Calevo ha rischiato. È inquietante l’intercettazione nella quale Bandoni dice allo zio, con il tono di chi deve dimostrare qualcosa a un personaggio per lui mitico: «Posso un po’ gonfiarlo? Ho voglia di pistarlo». Per fortuna l’anziano, pur nella sua sprovvedutezza generale, conserva qualche memoria dei concetti di aggravante o di omicidio e frena: «Non adesso». Le sequenze del rapimento, a partire dalla fuga con l’ostaggio, sono come quelle del fiabesco Pollicino. Telecamere di sorveglianza inquadrano l’auto del rapito seguita da un furgone bianco e, poco dopo, il solo furgone bianco. Non si legge bene la targa, ma gli inquirenti lo individuano. Non è rubato, appartiene a nonno Destri, piccolo imprenditore edile a Ameglia, non lontano da Lerici, con addosso precedenti per abusi edilizi, traffici con amministrazioni, ruoli di basista di rapine. E gravita intorno al suo nome la scomparsa di Mohammed Cherkaoui, muratore marocchino cinquantenne sparito a Sarzana il settembre 2009, vicenda passata per le telecamere di «Chi l’ha visto?» e rimasta appesa al nulla e al mistero di un presunto debito, 9 mila euro che Destri doveva all’uomo. Procura, carabinieri, polizia si danno da fare intorno a lui e al suo giro di parenti e amici. E nonno Pollicino continua a seminare sassolini bianchi. La telefonata alla famiglia Calevo parte da una cabina di Piazza dei Miracoli a Pisa, proprio mentre dalle cellule risulta lì il telefonino di lui. E lui è tanto meticoloso che quando lo fermano trovano sull’auto gli scontrini dell’autostrada con ore perfettamente in sintonia con la chiamata per l’estorsione. La mal riposta sicurezza di sé non faccia credere che sia stato leggero il lavoro degli inquirenti. Trovar tracce e puntare con il mirino giusto le indagini è un primo passo, poi ci si deve muovere con cautela infinita, perché un attimo di panico, una ventata d’ira possono distruggere l’ostaggio, come raccontano le parole di Davide, già noto alle forze dell’ordine per la sua sventurata confidenza con gli stupefacenti, che, dicono gli investigatori, in famiglia avevano già fatto una vittima. Davide sembra voler competere in durezza con la manovalanza albanese, anche se poi su Facebook, accanto alle foto con occhialoni affumicati, sigaretta, cresta di capelli ritta sulla testa e accetta in mano, era tenero verso l’amico Luca: «Noi due forever» e affidava sogni a un video di Vasco Rossi. Nonostante le tracce lasciate in giro, la banda parlava disinvolta ai cellulari e non si è insospettita quando i telefonini sono stati d’improvviso isolati. Li hanno presi uno per uno e sono andati a liberare Andrea, nel seminterrato dietro un armadione a ostruire l’ingresso, con una catena alla caviglia, rozzamente simbolica giacché non attaccata al muro. Un secchio per l’acqua e uno per la pipì, un sacchetto per il restante delle necessità fisiche, un set da vecchio carcere con la modernità dei kit per i cani ai giardini pubblici. Rozzi e schifiltosi insieme. I professionisti hanno via via lasciato perdere il settore dopo le leggi che bloccavano i beni dei rapiti e i sempre più sofisticati mezzi per intercettare, trovare immagini, raccogliere dati sulla scena del crimine. Dal primo gennaio 1969 al 31 dicembre 1995 furono 667 i sequestri di persona. Poi ancora qualche caso, come Giuseppe Soffiantini nel 1997 o Giovanni Battista Pinna nel 2007. Per il resto sequestri lampo, quasi sempre finiti con la cattura degli autori. Come per questa variegata banda che si incolleriva perché i giornali scrivevano che non c’erano stati contatti e richieste, quasi il silenzio sulla loro attività offendesse o negasse il loro «lavoro» sospeso tra l’improvvisazione pasticciona e i sassolini di Pollicino.