Gabriele Beccaria, TuttoScienze, La Stampa 2/1/2013, 2 gennaio 2013
PERCHÉ I DINOSAURI NON SMISERO MAI DI CRESCERE
Si chiamano David Wilkinson e Graeme Ruxton e di recente hanno acquisito una certa celebrità per i loro serissimi studi sugli sconvolgenti effetti della flatulenza dei dinosauri vissuti 100 milioni di anni fa (conseguenze di molto superiori a quelle delle emissioni cinesi e indiane del XXI secolo). Ora, sempre ossessionati dagli amati sauropodi, hanno deciso di dire la loro su un altro problema: come mai erano così enormi?
Le più grandi creature che abbiano mai popolato il nostro Pianeta erano davvero fuori scala: colli sterminati e code infinite, attaccate a corpi paragonabili a un palazzo. Alcune specie raggiungevano i 40 metri e il «tipo» più colossale - l’Argentinosaurus - deve aver toccato le 110 tonnellate di peso, come uno yacht di lusso. E non è detto che prima o poi non vengano alla luce fossili ancora più ingombranti. E’ quindi comprensibile che da decenni i paleontologi si interroghino sulla questione, dando prova di esemplare creatività.
C’è per esempio la «Regola di Cope», secondo la quale l’evoluzione sperimentò un principio unidirezionale: inventò strutture biologiche e processi metabolici specificamente modellati sul gigantismo. Mentre le ossa diventarono cave per contenere aria, come nei moderni uccelli, la digestione si trasformò in un processo dai tempi iper-dilatati.
Già un decennio fa una ricerca sudafricana aveva approfondito il secondo aspetto: solo corpi immensi - si teorizzava - potevano contenere grandi stomaci e grandi intestini per processare le tonnellate di erbe e foglie ingerite ogni giorno e, vista l’abbondanza delle risorse nel Triassico e nel Cretaceo, la maggior parte dell’energia immagazzinata poteva essere usata per crescere piuttosto che per muoversi e competere. Alla spinta all’«oversize», inoltre, contribuiva lo straordinario vantaggio sui predatori: dissuasi dalla mole, avrebbero finito per tenersi alla larga.
Wilkinson e Ruxton, il primo della Liverpool John Moores University e il secondo della University of St. Andrews, in Scozia, hanno ripreso in mano questa teoria e - secondo l’articolo su «Functional Ecology», rivista della British Ecological Society - sono arrivati alla conclusione che i colleghi paleontologi avevano visto giusto, anche se con qualche errore.
Il punto debole - sostiene il duo - sta nel fatto di aver calcolato solo l’azoto racchiuso nelle conifere del lontano passato e di non aver tenuto conto del contenuto energetico totale. Sembra un problema di nicchia, ma non è così. E ipotizzano due scenari complementari. È possibile che i giovani dinosauri, visto il loro breve tratto digerente, fossero onnivori e provvisti di un metabolismo simile a quello dei futuri mammiferi, mentre gli adulti «funzionassero» in modo diverso: non potendo disperdere il calore come fa la nostra specie, viste le dimensioni abnormi, impararono a immagazzinare il surplus energetico sotto forma di grasso, scatenando un veloce processo di crescita.
E speculano che i sauropodi avessero sviluppato specifiche riserve sottopelle, come i cammelli del presente. Così l’immagine dei dinosauri cambia ancora una volta: avranno avuto mostruose gobbe?