Massimiliano Panarari, La Stampa 2/1/2013, 2 gennaio 2013
LA STUPIDITÀ, UN FENOMENO CULTURALE
Michel Foucault scrisse, nel 1962, una memorabile Storia della follia , mentre ci mancava quella di un’altra, assai meno tragica, condizione dell’umanità, l’idiozia. A questa lacuna sopperisce ora Stupidità di Gianfranco Marrone.
Il libro (Bompiani, pp. 166, € 12) del semiologo e saggista (che insegna all’Università di Palermo ed è uno dei massimi studiosi italiani di Roland Barthes) è una sorta di storia culturale (molto seria, ma che non disdegna l’ironia) di questa attitudine che, a dispetto di quanto pensiamo (o vorremmo…), si rivela implacabile e non risparmia proprio nessuno.
Il fatto è, constata amaramente Marrone, prima di mettersi a delineare l’evoluzione delle forme di stoltezza, che si è scavato un solco incolmabile, nella nostra età postmoderna, tra «politica» e cultura, che ha messo in mora il senso della misura e radicalizzato le distanze tra i due ambiti. La stupidità si è fatta largo nella società dei consumi e della televisione, dilagando e rivendicando con orgogliosa sicumera la sua primazia, innalzandosi a cosa cool . Basti pensare alle idiozie che imperversano, amplificate da mass media e social network, e ottengono tanto spazio in tv, oppure all’esortazione trendy della pubblicità di una nota marca di abbigliamento che ci invita a rivendicare con orgoglio: «Be stupid!».
Così, la reazione, impaurita e stizzita al tempo stesso, alla prevalenza del cretino - a cui aveva consacrato pagine indimenticabili la coppia Fruttero & Lucentini e di cui aveva «scientificamente» fissato i canoni («le leggi fondamentali della stupidità umana») Carlo M. Cipolla nel suo immortale pamphlet Allegro ma non troppo - assume tratti accigliati e intellettualistici, decisamente autoconsolatori e minoritari (oltre che spesso inaccettabilmente spocchiosi).
E, allora, che fare? Rassegnarsi? No, la strada migliore rimane quella - esercizio intellettuale vero e profondo - della problematizzazione e di un’attività di riflessione intorno alla stupidità, sulla scorta delle idee in materia degli scrittori e pensatori scandagliati nel suo libro da Marrone. Un’operazione che può, senza dubbio, stimolare un po’ di anticorpi a questo, tutt’altro che idilliaco, stato di cose.
Le figure, camaleontiche, della stupidità sono parecchio cambiate nel corso del tempo. Una volta c’era Giufà (oppure Giucà, o ancora Giuha), l’idealtipico «scemo del villaggio», personaggio del folklore siciliano (e non solo), credulone e pronto a farsi infinocchiare da ogni genere di truffatore (di cui hanno scritto, tra gli altri, Leonardo Sciascia e Italo Calvino). Vale a dire, l’idiota di paese, che risultava, però, perfettamente integrato nella società gerarchica e rurale in cui si muoveva: borderline , ai confini con la bestialità, e quindi portatore di una «purezza» da buon selvaggio che lo faceva accettare dagli altri. Un mondo di certezze, tutto sommato rassicuranti, che viene mandato gambe all’aria dall’avvento della società borghese, dove lo sciocco finisce per coincidere, all’insegna di una impressionante torsione di ruoli, con l’aristocratico che non sa adattarsi al dinamismo industriale dei tempi nuovi; per l’artista bohémien , invece, stupido si rivela lo stesso esponente dei ceti borghesi, «schiavo» di un’intelligenza specialistica e parziale, e incapace di godersi la vita a causa della sua ossessione produttivistica.
Proprio dal cuore dei secoli della borghesia si staglia quel monumento allo studio della stupidità che è l’opera di Gustave Flaubert, con l’autore di Bouvard et Pécuchet che collega l’imbecillità a un uso stolto del linguaggio, al luogo comune e all’opinione diffusa, nonché alla bêtise alimentata dalle idées reçues (e da quelle che considera le ottuse pretese tassonomiche della filosofia positivistica). E, mentre la modernità vede le vaticinate sorti magnifiche e progressive infrangersi contro l’orrore del nazismo e i massacri della seconda guerra mondiale, nella Dialettica dell’Illuminismo Adorno e Horkheimer cercano le radici della stoltezza che ha portato la civiltà europea al suicidio, conquistando le masse all’antisemitismo e all’hitlerismo.
La fine del Progetto moderno conduce a una generale indeterminazione e alla difficoltà di qualsiasi definizione precisa delle distinzioni tra sé e l’altro da sé. Tutto si mescola e perde confini sicuri: arriviamo quindi, ed è la cronaca della nostra epoca, alla travolgente stupidità postmoderna e al suo gran calderone, che mette insieme Kitsch, reality show (una specie di «teatro della crudeltà» banalizzato), romanticismo cheap (dove cuore fa sempre, e inevitabilmente, rima con amore), complottismi e dietrologie sostenuti da tizi che pensano di essere più furbi e acuti («a noi non la si fa»…) dei loro simili.
Emblemi dell’imbecille postmodern sono i personaggi che si muovono nelle intricate e paranoiche trame del Pendolo di Foucault di Umberto Eco (la storia di una «stupidità vittoriosa», come la definisce Marrone), o i protagonisti obesi, autentiche «anime morte», dei quadri di Fernando Botero (individui spenti, come rimarcava Sciascia, in un mondo piattamente omologato). Di fronte ai quali hanno buon gioco, nella hit parade delle preferenze di buona parte della letteratura (la sola, secondo alcuni, a poterci salvare dall’idiozia), i bravi «cretini del bel tempo andato», oggetto di dichiarata nostalgia vintage . Per non parlare di quell’altra manifestazione per eccellenza della stupidità postmoderna che consiste, a giudizio dell’autore, nell’«Intelligenza artificiale» e nei cervelli elettronici pensanti.
Certo non va mai dimenticato che la stoltezza non rappresenta una prerogativa esclusiva di pochi suoi portatori (più o meno «sani», o «insani»). Anche perché, come diceva uno che se intendeva (il gigante della malinconica, quando non direttamente apocalittica, cultura mitteleuropea Robert Musil), non c’è peggior imbecille di chi ostenta e vanta la propria intelligenza.