Marco Mensurati, la Repubblica 2/1/2013, 2 gennaio 2013
CASA VETTEL
La storia di quello che è successo dopo la conoscono tutti. Ma per scoprire quello che è accaduto prima - prima di quel fatidico settembre 2008, quando uno sconosciuto Sebastian Vettel vinse la sua prima gara in Formula 1 a bordo di una modesta Toro Rosso sotto il diluvio di Monza - occorre venire fino a qui, ad Heppenheim, nel cuore medievale dell’Assia, a un’ora di strada da Francoforte. È qui che tutto è cominciato, 23 anni fa. È qui che il dio delle corse ha fatto nascere il talento di Sebastian Vettel, il ragazzo destinato a battere tutti i record, anche quelli di Michael Schumacher.
Il centro antico di Heppenheim, 25 mila anime congelate da inverni rigidissimi e nevosi, sembra il set di un film sul medioevo, case di legno, strade sempre imbiancate e deserte, qualche indaffaratissimo artigiano, qua e là. A parte una buona produzione di riesling e un castello ben conservato, non c’è praticamente niente, nessuna attrattiva, nessun motivo per venire fin qui. Tanto che, da qualche tempo a questa parte, l’amministrazione comunale sta incoraggiando un piccolo movimento
di pensiero che vuole cambiare il nome alla cittadina, da Heppenheim a “Vettelheim”.
All’ufficio informazioni turistiche ci sono due banchetti. Uno fornisce gli opuscoli sul castello. L’altro, gli adesivi di Sebastian, i cappellini Red Bull autografati e qualche generica informazione sulla scuola frequentata dal pilota e sul suo personale fans club, che ha sede al caffè N. Chiunque voglia saperne qualcosa di più, deve arrangiarsi da solo. Perché Sebastian da un po’ di tempo a questa parte ha il terrore che qualcuno decida di sequestrare suo fratello, il piccolo Fabian, 12 anni, e ha chiesto ai suoi concittadini la massima discrezione.
Per fortuna il posto è piccolo, e la gente anche da queste parti cede facilmente alla vanità di mostrarsi in confidenza con i vip. E così basta fare qualche domanda in giro per arrivare a casa Vettel, in Daimlerstrasse (sì, proprio così, “via Daimler”, dal nome dell’inventore del motore a scoppio). Duecento metri di stradina periferica delimitata da una concessionaria Volkswagen a est e da un meccanico Renault a ovest. Un paesaggio anonimo e piatto, mosso solo dalla galaverna e dal vento.
La casa dei Vettel è stata ristrutturata da poco. Prima era bianca e azzurra. Ora l’azzurro è stato sostituito da un rosso mattone, un po’ più cupo ma forse anche più elegante.
Come tutti i suoi colleghi, anche Sebastian ha comprato casa
in Svizzera non appena il suo conto corrente ha assunto le proporzioni adeguate a una star della Formula 1. Però non ci vive. In realtà non vive da nessuna parte. E’ sempre appresso al Circus, sballottato qua e là per il mondo, e quando non è in giro con la Formula 1 è in Austria, in un hotel cinque stelle vicino alla sede della Red Bull.
Quando può, però, torna qui. Si ferma poco tempo, anche solo due o tre ore. Qui l’aspettano Heike e Norbert, i genitori, le due sorelle maggiori, e Fabian. Il suo mondo.
Frau Heike ha fatto la spesa grossa, oggi. Sono giorni di festa, questi. Il suo “Seppi” arriverà presto. Davanti all’ingresso trova lo sconosciuto venuto dall’Italia. Sorride. «Aspetti che le chiamo Norbert, è lui l’incaricato di parlare con i giornalisti
quando vengono qui». Dopo pochi minuti arriva Norbert. Identico al figlio, stesso sorriso, stesso sguardo elettrico. Aveva una ditta di carpenteria discretamente avviata ma l’ha dovuta chiudere. Dopo che Seb ha vinto il primo mondiale gli affari
hanno cominciato ad andar male, la gente non si rivolgeva più a lui ma alla concorrenza: «Non trovava giusto dare lavoro al padre di un multimilionario».
Strana storia, la sua. All’inizio in casa non c’erano soldi. E per
assecondare la passione del figlioletto, a un certo punto, ha dovuto sacrificare la propria, e vendere la macchina che teneva in garage e che aveva “preparato” con le sue mani per i rally, da solo, in garage, durante i week end. Del resto tutto era cominciato per colpa sua. «No, non avevo intuito nessun particolare talento, in Sebastian – racconta –. Volevo solo che restasse lontano dalla droga e dai guai. Lui come le sue sorelle e Fabian ». E così Nobert ha venduto la sua Gti e ha comprato un piccolo kart per tutta la famiglia. La leggenda vuole che Melanie, tre anni più grande di Sebastian, fosse la più veloce di casa. «Ma non è vero. L’ha battuto solo una volta. Per il resto Seb è sempre stato il più forte. All’inizio correvano qua fuori», dice Norbert, mostrando un pezzo di cortile
incastrato tra la casa e il garage. «Avevamo tracciato un paio di curve intorno all’edificio, e in questo punto qui mi divertivo a rovesciare secchiate d’acqua in maniera da renderlo scivoloso». Un’esperienza che sarebbe tornata utile al figlio una decina d’anni dopo, in Brasile, durante un Gp più importante degli altri.
«Ma le giuro che non avevo nessun’altra ambizione, per mio figlio, se non quella di tenerlo lontano dalla droga: in Germania molti genitori lasciano le chiavi di casa ai figli e che si arrangino loro. Be’, a me non è mai piaciuto questo modo di fare. Io li ho sempre incoraggiati a giocare a pallone, a correre in macchina a fare cose, e li ho seguiti ». E loro hanno risposto alla grande, se è vero che adesso, in soggiorno, la signora Heike spolvera ogni mattina i pezzi di
un piccolo museo, le coppe e le medaglie di Sebastian e i resti di tutte le bottiglie di champagne spruzzate sul podio.
Poco distante dal museo, nella camera da letto del loro ragazzo, c’è appesa al muro una frase pronunciata un giorno, una vita fa, da Lance Armstrong: «Ogni mia singola vittoria l’ho pagata con galloni di sudore». Sebastian l’ha letta su un giornale e l’ha voluta sopra il letto. Forse perché sapeva che avrebbe potuto essere anche la frase sua, e di suo padre. Già perché una volta acquistato il kart e individuato il talento di Seppi è arrivata la parte difficile della cosa: affermarsi, trovare un volante, diventare professionisti. Una stagione durissima e romantica, con l’intera famiglia Vettel che attraversava la Germania e l’Europa per kartodromi.
Il momento di svolta è arrivato all’improvviso, quando Sebastian aveva 13 anni e la Red Bull appena entrata nel mondo dei motori lo vide gareggiare sul bagnato tra le curve del circuito di Kerpen, quello che vide nascere la stella di Schumacher. Per trovare i soldi necessari a correre lì, Norbert si era inventato di tutto. Aveva persino convinto un produttore locale di vodka a sponsorizzare suo figlio: «La scena faceva abbastanza ridere, con questo ragazzino di dodici anni che girava con il logo di una marca di vodka stampato ovunque». La Red Bull, quel giorno, lo vide battersi come un leone sotto l’acqua e decise di puntare forte su di lui. Lo fece entrare in un programma di formazione, al termine del quale lo fece debuttare su una monoposto. Aveva solo 15 anni, ed era illegale: l’età
minima era 16. Poi gli affidò una macchina di Formula 1, una Toro Rosso, la scuderia italiana (ex Minardi) satellite della Red Bull. «Il periodo italiano – racconta Norbert – è stato uno dei più divertenti. Jesolo, Milano, Modena, posti fantastici, gente eccezionale ». Un periodo d’oro vissuto con la leggerezza di chi ha compiuto la sua missione. «Fino a quel punto è stata fatica mia, da quel punto in avanti ci hanno pensato Sebastian e il destino». E così è arrivata quella vittoria, in quel giorno di pioggia a Monza, e poi le altre, una dietro l’altra, a tracciare una linea dritta e infinita sulla vita di tutti.
Norbert guarda il cortile, respira, poi alza lo sguardo verso la pianura, oltre il concessionario Volkswagen: «Lo stiamo aspettando. Dovrebbe tornare in questi giorni, ma chi lo sa. Ancora non siamo riusciti a festeggiare nemmeno il mondiale. Gli altri hanno fatto festa, noi invece non ci siamo ancora riusciti. Ma sono contento lo stesso. E non per i soldi, o per le vittorie. Ma perché so che sì, ho faticato molto, però alla fine sono riuscito a fare di mio figlio un ragazzo felice».