Paolo Mauri, la Repubblica 2/1/2013, 2 gennaio 2013
LAMBRETTA E MARXISMO NELL’ITALIA DI OTTIERI
Le fabbriche chiudono, il caso Ilva è solo l’ultimo e gigantesco di una serie infinita, gli operai bruciano, realmente e simbolicamente: questo è il dato drammatico dei nostri anni e l’industria di un tempo, neppure troppo lontano, è ormai reperto archeologico con i capannoni pronti ad essere riusati per fare mostre o convegni. L’agonia è dolorosa, la parola d’ordine, diffusa da Ermanno Rea, dismissione. Fa un effetto un po’ surreale calarsi nei panni di un intellettuale come Ottiero Ottieri che caparbiamente volle avvicinarsi alla realtà operaia e industriale del suo tempo e per questo, poco più che ventenne, lasciò Roma, dove era nato nel ’24 da una famiglia di piccola nobiltà toscana, e andò a Milano. Siamo agli inizi degli anni Cinquanta: Ottiero tiene un diario nel quale registra desideri e pensieri, dubbi e accadimenti. Li esplicita nella lettera inedita indirizzata a Vittorini (la pubblichiamo qui) che accompagna il diario offerto in lettura e in parte pubblicato sul
Menabò numero 4, 1961. Siamo alle soglie del boom economico e della neoavanguardia quando la rivista di Calvino e Vittorini dedica due numeri al tema “Industria e letteratura”, di cui Ottieri, che ha già pubblicato
Tempi strettie Donnarumma all’assalto si può dire ormai un esperto. Ma che tenerezza sfogliare la supercitata rivista: c’è molta poesia e Giovanni Giudici si chiede «Se sia opportuno trasferirsi in campagna».
La linea gotica,
pubblicato nel ’63 da Bompiani, torna ora in libreria da Guanda per il decennale della scomparsa dello scrittore. Furio Colombo, nella bella e partecipe prefazione alla
Linea
conclude dicendo che l’inquietudine di Ottiero è diventata la Storia. Il diario di Ottieri vive nella intermittente fiducia di un possibile futuro diverso, ma, inevitabilmente, ognuno ha il suo. I marxisti radicali vogliono la Rivoluzione, i socialisti più le riforme che la rivoluzione, molti intellettuali cercano di superare il senso di colpa per la professione che fanno calandosi nella realtà altrui. Non appena si attenua l’attesa del futuro, ecco che una luce si spegne. Con amarezza il marxista convinto profetizza la fine del comunismo grazie al diffondersi della lambretta o della seicento e ci sono momenti in cui la fiducia nell’Urss viene meno e sul futuro si preferisce tacere. Ottieri, che si dichiara socialista e frequenta, anche senza rinnovare la tessera, le riunioni operaie, è meno portato al dibattito teorico. Registra incontri, frasi, ossessioni. Si rende conto sempre più che i dirigenti (e lui tra quelli) sono lontani e diversi dagli operai che devono controllare, dirigere o assumere. In lui, per di più, sente risalire in superficie le stimmate dell’origine agiata e quando in certe passeggiate lombarde, la domenica, contempla i muri delle fabbriche silenziose di Sesto San Giovanni, il suo passo è ovviamente quello del narratore.
La linea gotica
si apre con questa dichiarazione: «Una linea gotica, mentale, per me taglia a mezzo l’Italia. Ci vivo a cavallo. I dilemmi spirituali, dell’anima, si proiettano nella geografia. Una scelta interiore si camuffa da scelta di una città e non è nemmeno del tutto un camuffamento. Roma è il mio essere, Milano il mio dover essere. Sogno una terza città che le unisca, dove avere tutto, conciliare tutto, e stare una buona volta
tranquillo». Forse Ivrea, forse Pozzuoli dove lavora per Olivetti?
Gli eventi privati si sovrappongono alla vita pubblica: una meningite colpisce lo scrittore che viene curato a Firenze dal dottor Cocchi, l’unico che allora avesse elaborato un metodo per arginare e spesso addirittura guarire questo male. Il diario della malattia apre una dimensione altra. La morte parla. Ottieri, che in seguito soffrirà di forti nevrosi, è molto attento ai mali degli operai, specie a quelli di natura psichica. Nella parte finale del diario c’è un resoconto fortemente teatrale di un convegno: attori gli operai socialisti della Cgil. Lo scrittore è con loro, ma, ammette, fuori di loro. In quel momento egli è un regista che valuta l’effetto sulla scena: i contenuti (sempre gli stessi) sono un po’ scontati e alla fine i delegati si annoiano e vorrebbero scappare. Codicillo: dove sono i problemi veri, se quelli di cui si discute sono considerati noiosi? È un po’ questo il senso di tutto il diario: ancorarsi a qualcosa che apra verso un dopo. Nel ’60, a proposito di teatro, Ottieri ha scritto una commedia molto vivace,
I venditori di Milano,
andata in scena al Gerolamo e pubblicata da Einaudi (l’ha riproposta Barbès). È una lettura anche satirica delle smanie indu-striali per la vendita, che deve essere perseguita ad ogni costo. Da scrittore, Ottieri coglie bene i tic dei personaggi: «Un romanziere non sarà mai un organizzatore di uomini. Egli ama l’organizzazione ma, fatalmente, quella dei suoi personaggi». L’aspetto teorico della faccenda resta un po’ chimerico: «Del marxismo non conosco bene neppure le teorie essenziali, quella del plusvalore, della moneta, del capitale…». Eppure, due righe sotto, giudica l’ingresso dell’economia fra le scienze umanistiche il massimo colpo di scena nella nostra cultura del dopoguerra. C’è una sorta di copione da recitare: «Le discussioni a pendolo su come è o come deve essere la classe operaia mi sono sempre parse un po’ ridicole. Eppure le faccio anch’io». Conformismo? Nell’isola deserta Ottieri porterebbe un trattato di economia politica, ma qualcuno gli fa notare che, nelle isole deserte, l’economia politica non serve proprio a nulla.