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 2012  dicembre 30 Domenica calendario

BIBLIOVISITE A CASA PRAZ


Era abitudine di Mario Praz chiedere a chi si recava da lui di scrivere nome indirizzo e data: aveva comprato in Inghilterra, dove era vissuto a lungo prima della guerra, dei quaderni rilegati con fogli a righe nei quali erano stampati Date Name Address. Questi visitors books furono utilizzati dall’inizio del 1949 e vennero via via riempiti con migliaia di firme fino a pochi giorni prima della morte nel 1982.
Quest’uso, essenzialmente ottocentesco, non è solo inglese ma in Inghilterra esso continua a essere mantenuto seppur con assai minore vivacità. Negli altri paesi europei, fino a tempi relativamente recenti, si utilizzavano perlopiù albi di maggiori dimensioni che spesso contenevano apprezzamenti lusinghieri su cene prelibate, soggiorni indimenticabili, conversazioni impareggiabili. Si tendeva anche al pensiero filosofico e alla meditazione malinconica sul decorrere del tempo. Spesso gli ospiti esageravano il loro entusiasmo: è noto quel che accadde al giovane Marcel Proust durante una sua visita a un signore di grande nome e di non minore arroganza. Quando lo scrittore, ancora ignoto, si accingeva, calamo in mano, ad apporre la propria calligrafia sul lussuoso quaderno del nobile ospite si sentì apostrofare: «Soyez bref, Monsieur, et surtout pas de pensées».
Visitors book. Ospiti a Casa Praz, è il titolo di una mostra che si tiene a Roma fino al 23 marzo. La rassegna (che coincide col trentesimo anniversario della scomparsa del maestro) vuole festeggiare il lascito a Palazzo Primoli dell’archivio fotografico di Milton Gendel, autore delle immagini che animano questa occasione. Le fotografie di Gendel sono racconti schietti in cui i personaggi parlano da soli senza interpretazioni di chi li presenta, invitando così chi guarda a trarre le proprie conclusioni. Credo di aver conosciuto quasi tutti gli amici di Praz qui effigiati: le foto riprendono a perfezione il guizzo malizioso degli occhi di Hugh Honour, quello anfibio di John Pope-Hennessy, remoto di Argan, affettuoso di Chastel, imbarazzato di Luigi Magnani o, infine, quello incuriosito di Camilla Pecci Blunt e quello ironico di Alberto Arbasino allora con trionfanti baffi. La rassegna è stata studiata con attenzione da tutti gli organizzatori. Gendel è stato spesso ospite in quella casa e fu lui ad accompagnare la Principessa Margaret nel 1973, occasione ben documentata nel catalogo della mostra con le bellissime fotografie dell’epifania della principessa che appare a un devoto anfitrione. Io non fui presente alla visita regale ma ricordo la contentezza del mio vecchio amico e anche la sua costernazione per il costo del rinfresco «un’intera bottiglia di gin di marca, vassoi di canapè al salmone e pasticcini. Credevo che sarebbero bastati per la mia cena». In realtà quella sua ostentata avarizia era più di maniera che di sostanza: spesso il Professore, per una bizzarra forma di civetteria, diventava il personaggio che la maldicenza gli aveva cucito addosso.
Lo spoglio dei tre nutritissimi visitors books diventerà un giorno un caleidoscopio del mondo che Mario il mago riuscì ad attrarre nella sua stanza delle meraviglie. Ma è impresa ardua e per oggi dovremo accontentarci del lungo indice di corrispondenti di cui si conservano tracce nell’archivio del Museo Praz. In quell’elenco non compare un nome che sono andato inutilmente a cercare. Conoscevo un esperto di numismatica e di medaglie che chiese e ottenne di essere ricevuto a Palazzo Primoli. Eravamo alla metà degli anni Settanta; qualche giorno dopo andai anche io a salutare Praz: era furibondo come non l’avevo mai visto essendo sempre un uomo serafico. Mi mostrò subito il libro degli ospiti: «Vedi» mi disse «ho messo quel malfattore che conosci anche tu in prigione; sono sicuro che mi ha rubato una medaglia che era sul tavolino qui accanto». Mario (volle essere chiamato per nome fin da quando l’avevo conosciuto) aveva tracciato sopra la firma del presunto ladro un reticolato che simulava i ferri di una cella. Non so se la medaglia ricomparve mai.
La pubblicazione che commemora questa rassegna contiene una scelta di articoli di Praz e su Praz. Inutile dire che i migliori sono i suoi. Ma vorrei almeno menzionare un resoconto di André Chastel assai grazioso su Praz collezionista ("Les souvenirs de l’amateur" a pagina 71). Invece "La proprietà dell’opera d’arte è un furto" di Giulio Carlo Argan (a pagina 74) appare come un minaccioso pezzo di scavo. È un vero e proprio riassunto dei preconcetti stalinisti che hanno fatto non poco danno alla cultura artistica italiana del dopoguerra: del resto basterebbe il titolo per intuire il contenuto. Argan finisce per auspicare – senza dirlo apertamente – la creazione di un comitato di esperti che avrebbe deciso ciò che contava e ciò che non contava per l’Italia. Il tutto è scritto in una lingua spesso incomprensibile: «L’oggetto non è la cosa, bensì la cosa in quanto recepita e assunta dalla coscienza si pone nell’atto stesso in cui pone simultaneamente e parallelamente il soggetto e l’oggetto, il sé e l’altro». Eravamo all’8 giugno 1975. Praz aveva scritto un articolo, L’arte e l’oro, in cui chiamava le cose col loro nome, dicendo chiaramente quanto fossero insopportabili le posizioni di Argan. Peccato: Argan era un uomo intelligente, estremamente spiritoso di persona. La prosa di Praz e le fotografie di Gendel fanno indovinare il lato meno simpatico di quello strano individuo.
A Praz il trio allora ossequiato da tutti – Brandi, Argan, Bucarelli – non piaceva e gli indirizzava un linguaggio ironico ma mai offensivo. Nell’odierno catalogo compare la recensione al volume su Jean Fautrier di Palma Bucarelli col titolo Si tratta proprio di arte? Mentre Federico Zeri allora destinò al libro una battuta decisamente pesante «Ma vada a farsi Fautrier!». Anche a Cesare Brandi toccò qualche frase pungente di Praz (ricordo una recensione che mi pare si chiamasse La stanza del lattante in cui si prendeva in giro qualche astrazione incomprensibile).
Praz era un’altra cosa, un vero europeo. A dirlo sono in molti. Vorrei qui ricordare il magnifico saggio di Marc Fumaroli (prefazione all’edizione francese de Il mondo che ho visto, 1993) dove compaiono due apprezzamenti che non vanno dimenticati: «Praz cercava meno l’arte fuori dal tempo che il tempo condensato nelle arti» e «vedere l’invisibile non significa rifiutare l’evidenza».