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 2012  dicembre 30 Domenica calendario

SE SUDANO ALLORA SON COTTE


I testi ci dicono che ci sono più o meno dieci modi di cuocere le uova (ma stentiamo a crederci: sembrerebbero di meno, e sicuramente invece sono di più): affogate, al guscio, cioè alla coque, al piatto, fritte, mollette, rapprese o strapazzate, sode nell’acqua, sode nei grassi, nella cenere o nella sabbia. Affogate sarebbero in camicia, mollette sarebbero la stessa cosa che alla coque ma servite sgusciate (e con una sottilissima differenza nei tempi di cottura, talmente sottile da essere, è facile immaginare, impraticabile). Le uova al piatto non le fa mai nessuno, per quanto sembrerebbero buonissime, ma con un vacuo problema di sovrabbondanza per grassi e colesterolo: probabilmente da qui la loro quasi scomparsa. Cotte al forno, su di una teglia, imburrate di sopra e si sotto; come il panino di Pinocchio: ed è facile anche che siano meravigliose, così opache e dorate, a vederle uscire di lì.
Le uova fritte, ad aver coraggio, bisognerebbe friggerle davvero in una padella lionese di ferro in cinque dita d’olio, il resto sono inutili, per quanto salutari, imitazioni permesse dall’antiaderenza (concetto in fondo estraneo all’azione del cucinare: se si esclude la possibilità che si attacchi, tanto vale escludere anche quella che si cuocia). E le frittate: cioè le frittate, le omelette e le frittatine, riguardo alle quali ognuno (e ogni Paese) ha una sua idea, propria e personale. Il soufflé. E le creme, i dolci, le salse, i condimenti e le varianti.
È per questo, vorremo dire, che ogni uovo, per come lo si voglia cuocere e per quello che è, contiene in sé un intero universo dal quale è difficile prescindere e altrettanto difficile afferrarlo. Ogni uovo comporta un problema che non trova soluzione attraverso la speculazione, ma si disfa, come il burro in padella, o il tuorlo nell’albume, nel momento in cui lo cuoci (è scienza chimica). Per dire: le uova sode rimangono sode che le si renda tali immergendole nella sabbia bollente del deserto o semplicemente nell’acqua calda o anche aggiungendo a questa olio, o burro, e spezie varie? (Infilare un uovo intero – intero della sua buccia, s’intende – dentro a una torta salata insieme allo strutto, formaggio, pancetta, polpette e fegatini prima di metterlo in forno, è proprio la stessa cosa che farne uno sodo?).
Oppure Aldo Buzzi, che cita Raymond Oliver (proprietario dell’antico ristorante parigino «Au Grand Véfour» il ristorante preferito di Colette: «Un’opera d’arte è sempre un’avventura: l’omelette non sfugge a questa regola»), aveva posto fin dall’inizio delle premesse senza mezzi termini chiare, e piuttosto severe: «se fare un uovo al tegamino è meno facile di quello che sembra, figuriamoci una frittata».
Dunque cucinare non è (e come potrebbe esserlo?) scienza esatta, ma un’inane riflessione filosofica. Mastro Martino, volendole in «patelletta» consiglia di apparecchiarle coi «roschi sepatati dal biancho». Che non è, appunto, formazione pratica, ma ontologica: cos’è l’uno in assenza dell’altro? (Naturalmente la soluzione è, invece, biblica: «Che gusto c’è nel bianco dell’uovo?» si domanda Giobbe – 6, 6 – quando lo traduce Ceronetti).
Detto ciò: la cucina delle uova non appartiene a quel genere di cose che vengono inventate, quanto piuttosto a quelle che vengono scoperte: al pari degli spaghetti, le Lucky Strike, il pallone aerostatico, la legge di gravitazione universale (e le linguine al cartoccio).
Le uova in camicia, per dire, esistevano (platonicamente) già di per loro: poi qualcuno, per un motivo o per l’altro, ha aperto un uovo nell’acqua e la loro idea è venuta giù dall’iperuranio immergendosi in quella bollitura. (Naturalmente le uova di per sé non fanno parte né di ciò che viene scoperto, né di ciò che viene inventato: le uova – loro sì – molto più semplicemente sono). Allora la questione diventa se, e come, in che modo, si possa riuscire nella rimembranza (platonica) di quell’atto. Dando per scontate alcune premesse materiali (il tegame: possibilmente di rame, cambia nella sostanza, la cottura), sempre nel caso della camicia tutto si concentra sulla mano, che sia espressamente abile e decisa (cioè abile a quello scopo) nel gesto di calare l’uovo dandogli una sorta di movimento rotatorio acciocché il bianco avvolga il rosso, cuocendosi lui e l’altro no.
«Scocciatele», dice l’Artusi, che di uova se ne intendeva e queste qui le chiamava affogate, «quando l’acqua bolle e fatele cadere da poca altezza. Quando la chiara è ben rappresa e il torlo non è più tremolante, levatele con la mestola forata e conditele con sale, pepe, cacio e burro». Così è (senza bisogno di arrivare a Manhattan in una suite da 770 dollari a notte, al crisp bacon e alla salsa olandese). «Se ci volete una salsa», insiste piuttosto Artusi, «può servire quella di pomodoro, la salsa verde del n. 119, quella del n. 127, oppure una appositamente fatta che comporrete disfacendo un’acciuga nel burro caldo e aggiungendovi capperi spremuti dall’aceto e alquanto tritati; ma questa salsa non è per tutti gli stomachi» (a proposito, questa si che è letteratura: già solo il disfacimento dell’acciuga nel burro caldo, gli varrebbe il Goncourt, se fosse nostrano).
E poi volendo proporre un’alternativa apprezzabile, come dire, appena appena dignitosa, a chi lo stomaco, per l’appunto, non ce l’ha: «ho veduto servirle anche sopra uno strato, alto un dito, di purè di patate, oppure sopra spinaci rifatti al burro»: che in effetti è cosa più semplice, tranquilla, nella norma, e contenuta nel peso specifico.