Stefano Salis, Domenicale, ilSole24Ore 30/12/2012, 30 dicembre 2012
IL MIO NOME È BOND, FACCIO L’ORNITOLOGO
Il 2012 verrà archiviato come l’anno della consacrazione definitiva di un’icona planetaria, l’agente segreto di Sua Maestà con licenza di uccidere James Bond. A 50 anni dalla sua prima apparizione cinematografica, 007 è tornato con uno dei film migliori di sempre, incarnato dall’attore che più gli si attaglia (mi spiace per Connery), con mostre celebrative che lo collocano stabilmente nel mainstream culturale (ma alto: per dire, al Barbican di Londra era a fianco al Bauhaus), con nuove edizioni (in Italia nel catalogo del marchio più raffinato) e una serie di strepitose aste che hanno messo in vendita il meglio degli oggetti legati a questo campione del gusto, dell’estetica e dell’immaginario maschile occidentale del Novecento, in un mix di reale e fiction che ha pochi concorrenti.
Eppure, se devo pensare a un solo oggetto bibliofilo che riassume in sé tutti i significati – più nobili – della parola «memorabilia» non posso che pensare a questa storia.
State a sentire.
Quello snob unico e largamente corruttibile (alcol, fumo, bella vita) che fu Ian Fleming è nella sua casa di Oracabessa, in Giamaica; uno splendido retiro che lui chiama «Goldeneye». Ricco è già ricco, famoso ancora no; intuisce, però, che un romanzo, avventuroso, scritto bene, che faccia sentire gli uomini più uomini, gli può dare qualcosa in più, in termini di popolarità, fascino e, soprattutto di (argomento al quale è molto, molto sensibile) denaro. Concepisce e scrive la prima storia di questo personaggio senza macchia e senza paura, ma non sa ancora che nome dargli. Non si rompe molto la testa, né va oltre la sua libreria. «Volevo un nome comune, il più banale possibile» dichiarerà in un’intervista al giornale per il quale collaborerà in futuro, cedendo, a puntate, la pubblicazione di alcune avventure di 007, «Playboy» (e chi, se no?). Insomma, si ricorda del libro che legge appassionatamente tutte le volte che si trova in Giamaica, sandali, camiciola, disteso nell’amaca della sua spiaggia privata (poteva mancare?) mentre guarda il mare e ascolta il canto degli uccellini. Ecco: la sua "bibbia" è proprio Birds of the West Indies di un ornitologo americano, tale... James Bond. Il gioco è fatto, si parte.
Casino Royale, primo romanzo della serie di 007 (oggi le prime edizioni si vendono a cifre da capogiro, ma è pieno di collezionisti che se le contendono) è già un successo, ne seguono altri. Intanto, nel 1960, il libro di Bond esce anche in Gran Bretagna e il «Sunday Times» ne fa una piccola recensione, sotto l’umoristico (come il tenore del pezzo) titolo di «Wrong Man»: no, quel libro di ornitologia non è di 007, ma di un tale che ne usurpa il nome! Ovviamente è il contrario; e quando il ritaglio arriva a casa Bond, la signora James Bond indaga e viene a sapere di tutta la storia. Scrive a Fleming, il quale, divertito e colmo di ironia, dopo un po’ – intanto ha avuto il suo primo attacco di cuore –, naturalmente le risponde. Sì, è vero, ha "rubato" il nome del marito. «Mi scuso molto, in cambio posso offrire l’uso indiscriminato del nome Ian Fleming per qualunque uso voglia farne suo marito. Magari scopre una specie di uccelli particolarmente orribile e vorrà ricambiare... Comunque, se mai passaste in Giamaica, sarei ben felice di ospitarvi». Càpitano altri episodi e Fleming magari non ci pensa più. Persino la frase che ha scritto suona come buttata lì tanto per. Se non che, siamo nel febbraio 1964, piena estate giamaicana, suonano alla porta di Goldeneye. «Chi devo annunciare?» chiede la domestica. «Il mio nome è Bond, James Bond» dice il distinto signore, camicia fatasia e pantaloni kaki, certamente facendo pesare l’ironia della situazione. In un momento Fleming è fuori, stringe la mano a Bond (allora 64enne) e signora e – dopo essersi scusato per essere nel mezzo di un’intervista con la tv canadese – invita a pranzo la coppia. I convenevoli, la rilassata consumazione del pranzo (durante il quale Fleming si assicura, tra le righe, che Bond non sia lì per fargli causa: i soldi sono soldi...), qualche momento a guardare e nominare gli uccelli e, quindi, lo scambio di doni, prima dei saluti. Fleming tira fuori il libro degli ospiti di casa. Bond si accinge a firmare. «No! Per lei una pagina tutta nuova e scriva BELLO GRANDE». Bond sorride ed esegue, poi Fleming va in un’altra stanza e torna con una copia, ancora non in commercio, di quelle che gli autori hanno in anteprima, di You Only Live Twice. E gli scrive la dedica: «Al vero James Bond, dal / ladro della sua identità, Ian Fleming. / 5 Febbraio 1964 – un gran giorno!».
Il senso della dedica riassume in poche righe il rompicapo di teoria letteraria che ci sta dietro. L’autore incontra il suo personaggio? O forse è l’eroe che incontra il suo autore? Realtà e fiction si mescolano in un momento inscindibile, e il fascino della storia, dell’incontro, del racconto è autoevidente. I due purtroppo non si vedranno più; qualche mese dopo Fleming passerà a miglior vita (con tutti i dubbi del caso per l’espressione, stavolta). Tutto questo verrà però poi messo in pubblico dalla signora James Bond, Mary Wickham, in un librino del 1966, edito da Collins, dal significativo titolo How 007 Got His Name, copertina di Barbosa che fa il verso a quelle di Richard Chopping. Ora i collezionisti possono andare alla caccia: la mia copia è stata comprata dalla libreria canadese Harropian Books per 50 dollari, tramite Abebooks, ma in commercio ce ne sono alcune che vengono quotate molto di più.
Non certo, però, come quella – e qui si conclude davvero la storia – che è andata all’asta qualche anno fa in una tornata di memorabilia bondiane a Hollywood. Pagata 80mila dollari. Sì, avete indovinato, è proprio la copia – unica esistente al mondo – che Fleming autografa a James Bond a coronamento di una giornata piena di sole, di vento giamaicano, di sorrisi, di libri, di memorabilia, appunto, e sane bevute di Martini cocktail. Shakerati e non mescolati, va da sé. Alla nostra salute di bibliofili che sarebbero venuti. Cheers, e buon anno. A tutti noi.