Valerio Castronovo, Domenicale, ilSole24Ore 30/12/2012, 30 dicembre 2012
MUTAZIONE CAPITALISTA
Quello fra capitalismo e democrazia è sempre stato un rapporto dialettico a seconda delle evenienze e con esiti diversi. Nel mezzo dell’attuale crisi, la peggiore dopo quella del 1929, si è pertanto affacciato l’interrogativo se le direttrici di marcia del capitalismo emerse negli ultimi tempi rischiano di corrodere il nesso fra economia di mercato e istituzioni democratiche. Fra quanti sono dell’avviso che ciò stia appunto accadendo, Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini ritengono che la rottura del "compromesso storico" fra capitalismo e democrazia, quale s’era realizzato nel ventennio successivo alla fine della Seconda guerra mondiale, vada addebitata alla finanziarizzazione dell’economia, perché sarebbe giunta a determinare una mutazione genetica del capitalismo e a mettere a repentaglio le fondamenta della democrazia nei Paesi occidentali.
I fattori basilari della feconda combinazione fra capitalismo e democrazia avvenuta nel secondo dopoguerra, erano stati, da un lato, la spinta propulsiva impressa al sistema economico dalla libera circolazione delle merci, e, dall’altro, il controllo dei cambi nonché la limitazione dei trasferimenti di capitali da un Paese all’altro, in quanto lasciava ai governi ampi spazi di autonomia nella gestione della politica economica. All’esaurimento di quella stagione concorsero l’epilogo degli Accordi di Bretton Woods e la decisione degli americani di abolire la convertibilità del dollaro in oro, lo shock petrolifero del 1973 e una redistribuzione della ricchezza a vantaggio dei Paesi del Medio Oriente possessori di ingenti risorse energetiche.
Dopo di allora avrebbe preso il via, secondo Ruffolo e Sylos Labini, una vera e propria "controffensiva capitalistica", orchestrata dai leader di Stati Uniti e Gran Bretagna, tale da assecondare la massimizzazione del profitto a scapito del lavoro e dell’equità sociale.
In effetti, Ronald Reagan e Margaret Thatcher, convinti che il fine precipuo della società era di creare più ricchezza possibile e che l’autorealizzazione personale fosse la molla per conseguire quest’obiettivo, adottarono politiche di governo che si tradussero in una privatizzazione indiscriminata dei servizi pubblici e nella riduzione delle aliquote fiscali più elevate per invogliare i ceti più facoltosi a investire.
Ma se la "rivoluzione neo-conservatrice", all’insegna di assunti ultraliberisti, venne affermandosi, ciò accadde non solo per la forza d’urto del Big Business, ma anche per altri motivi: innanzitutto, perché la caduta in precedenza del tasso di crescita della produttività, l’aumento delle tasse e un’inflazione galoppante avevano messo impietosamente in luce l’insipiente azione di governo del presidente democratico Jimmy Carter. Né le cose erano andate meglio in Gran Bretagna durante il governo laburista.
Inoltre, se la mitizzazione del "free market" contagiò larghi settori dall’opinione pubblica in altri Paesi, fu perché erano andati crescendo gli oneri del Welfare, estesosi man mano all’intera collettività senza alcuna distinzione di reddito. A sua volta, l’estinzione per eutanasia del "socialismo reale" sovietico contribuì ad accreditare la tesi che il mercato, di per sé, fosse in grado di autoregolarsi garantendo condizioni di stabilità e la migliore valorizzazione delle risorse nell’interesse comune.
Non c’è dubbio che a mettere in moto una caterva di operazioni finanziarie sia stata, come sottolineano Ruffolo e Sylos Labini, la liberalizzazione dei movimenti di capitali. Tuttavia, a lasciarli a briglia sciolta fu la Federal Reserve Bank, data la convinzione personale di Alan Greenspan che tutti avessero da guadagnare dall’afflusso sul mercato mobiliare di una gran massa di capitali (dovuta anche alla comparsa di nuovi prodotti finanziari più accessibili e negoziabili tramite l’informatizzazione), e che ciò avrebbe favorito una "democratizzazione" dell’economia.
D’altronde, durante la seconda presidenza di Clinton non vennero assunte concrete forme di monitoraggio su una pletora di transazioni finanziarie, dagli elevati rendimenti a breve, estremamente rischiose. Anzi, anche i democratici votarono nel 1999 una legge che consentì pure alle banche commerciali, che raccoglievano i soldi dei risparmiatori, di negoziare titoli in Borsa: ciò che le portò ad avventurarsi in investimenti finanziari a catena con operazioni fuori bilancio. Infine, a dare le ali alla speculazione, dopo l’ascesa di George Bush jr alla Casa Bianca, fu la decisione dei repubblicani, all’insegna di un "capitalismo compassionevole", di rendere più facile l’accesso al credito da parte dei ceti meno abbienti per l’acquisto di una casa. Di qui la bolla dei "subprime" che ha innescato nel 2008 la disastrosa crisi in cui ancora ci troviamo. Perciò, oltre a una sequela di eventi politici e agli effetti collaterali della globalizzazione, tanti sono stati gli attori, con le loro opzioni ma anche con i loro errori e di valutazione, a spianare la strada a un turbocapitalismo affaristico, a detrimento dell’economia reale.
Tuttavia non si deve dare per scontato l’avvento di un’"Età del capitalismo finanziario", come pensano Ruffolo e Sylos Labini. Negli Usa il governo, se da un lato ha salvato le banche responsabili dell’inondazione dei titoli "tossici", dall’altro ha fatto pulizia nei loro bilanci, azzerato gli azionisti e imposto precisi vincoli ai compensi dei loro manager. Inoltre, il sistema unico europeo di vigilanza bancaria ha ora affidato alla Bce la supervisione delle principali banche e la possibilità di intervenire sulle altre.