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 2012  dicembre 30 Domenica calendario

NOI, IMMERSI NEL MEDIOEVO


È di moda il Medioevo. Pochi giorni fa con la scusa dei Maya si rispolveravano le tradizioni millenaristiche, oggi ci si vergogna perfino di aver prestato attenzione a questa fola, ma intanto c’è chi ci ha guadagnato e bene, c’è chi ha avuto argomenti per i festini aziendali di fine anno. Il Ventunesimo secolo dunque rimpiange i tremori che hanno accompagnato la fine del ventesimo (il millenium bug, ricordate?), e non vede l’ora di provare sulla pelle un po’ di apocalisse. Ha quindi invidia per uomini che non conoscevano l’uso della forchetta, erano analfabeti, morivano presto per cause oggi ridicole, eppure peccavano e si pentivano con convinzione e virulenza, sapevano con certezza di avere un’anima da salvare, attendevano pronti la personale apocalisse che è il termine della vita di ciascuno.
Anche noi sappiamo di dover morire, ma preferiamo girare intorno a questa verità, attingere a fonti lontane speranze non di vita eterna, ma di sopravvivenza: in un altro corpo, nei figli, negli insegnamenti. In questo siamo diversi dai medievali, prediligiamo le sfumature. Loro, invece, amavano spezzare il buio delle case (anche un problema di costo del sego per le candele, non solo culturale) con colori decisi, splendenti, rossi, azzurri, verdi, bianchi, e tanto oro e pietre preziose. L’uomo vissuto nei mille anni convenzionalmente detti dell’Età di Mezzo sa di dover morire e ha poche altre certezze, non per stupidità ma perché abituato a discernere per arrivare al dunque: dal Sic et non di Abelardo alle Quaestiones quodlibetales di Tommaso d’Aquino, il pensiero medievale aggredisce il dubbio, grazie a cattedrali gotiche del pensiero delimita le luci e le ombre. Queste ultime sono popolate da veri mostri, dal Leviatano delle Scritture, dalle donne bicaudate, da diavoli che sono "legione", dal drago a sette teste dell’Apocalisse nei colori di Beato da Liebana e Gioacchino da Fiore, infine dal principe dei demoni, Satana padre della menzogna e governatore dell’inferno, che certo esiste.
Come esiste un Paradiso dove tutto è luce e gioco di tinte nette, tale che la poesia di Dante non deve inventare nulla per descriverlo, ha la certezza di un mondo altro che non è solo nella mente malata di qualche visionario, ma è il più reale dei mondi, perché eterno. Non contingente come la bellezza di questo mondo quaggiù, che ha come scopo la riproduzione di armonia e concinnitas celesti. Le cose belle, siano naturali o artificiali, sono tracce che se ben seguite lasciano intravedere la bellezza inestinguibile di quell’altro mondo e del suo Creatore. Non saranno dunque mai abbastanza colorate, immaginifiche, attraenti. Forse sembrano banali queste affermazioni, ovvie per chi ha frequentazione di manoscritti come il Book of Kells, di cattedrali come quella di Chartres o Modena. Ma se queste idee non si scontrano con i veti pregiudizi sull’ignoranza e l’oscurità dei secoli medievali è anche merito di un semiologo appassionato di Medioevo: «se non il mio mestiere, il mio hobby – e la mia tentazione costante, e lo vedo ovunque, in trasparenza, nelle cose di cui mi occupo, che medievali non sembrano eppur sono».
Umberto Eco dice di essere «nato alla ricerca attraverso foreste simboliche abitate da unicorni e grifoni». I suoi romanzi testimoniano il permanere di questa passione, ma è negli scritti filosofici che si scopre un Eco meno conosciuto, compagno di lavoro ammirato di quel Tommaso d’Aquino cui dedicò la tesi di laurea, ora negli Scritti sul pensiero medievale. Non se ne abbia a male lo studioso di semiotica contemporanea, quello di Eco non è un tradimento, né una malcelata nostalgia per un passato in sintonia con la Summa Theologiae. Eco è proprio convinto che i medievali siano arrivati per primi, e che non si tratti solo di nani sulle solite spalle dei soliti giganti del mondo antico: qualunque fosse la loro altezza culturale, è da quella che noi abbiamo incominciato. Per questo, dice Eco, se troviamo un tempio di Zeus lo circondiamo di transetti, lo lasciamo diroccato come è, e paghiamo pure un biglietto per guardarlo da lontano, mentre nei broletti ci incontriamo, nei palazzi comunali eleggiamo i nostri sindaci, nelle chiese romaniche e gotiche partecipiamo alle funzioni. Perché il Medioevo è nostro. È parte di noi la poesia dell’intelligenza del Paradiso, anche se per capirla dobbiamo farci aiutare da Eliot e Borges. È parte di noi la lettura postmoderna dei classici, da cui prendere quello che si può e che serve (il resto è utile e seria filologia, non vita). Noi siamo incantati da libri, film, giochi del genere Fantasy, un pasticcio che avrebbe fatto ribrezzo ai cantori di Lancillotto e Ginevra, ma che da loro copia.
Nella raccolta di scritti si legge una premessa che dà anche istruzioni per l’uso (siamo sempre nelle mani di un professionista della fruizione), il primo testo è il Manuale sull’estetica medievale, ancora non superato dopo più di mezzo secolo. Segue la rielaborazione della tesi di laurea, Il problema estetico in Tommaso d’Aquino, priva di derive strutturaliste dovute ai tempi della prima pubblicazione e comunque ripresentate nell’ultima parte. Quindi testi noti agli specialisti: sull’albero di Porfirio, sulla metafora, sul valore semiotico del latrato di un cane secondo i Medievali, sulla falsificazione, sulla denotazione, su Raimondo Lullo e le letture di Tommaso nel Novecento, da Maritain a Joyce.
Per ultime, conferenze e prefazioni con altri scritti divulgativi, buon punto di partenza per il lettore, che desidera scoprire come «il Medioevo inventa tutte le cose con cui ancora stiamo facendo i conti, le banche e la cambiale, l’organizzazione del latifondo, la struttura dell’amministrazione e della politica comunale, le lotte di classe e il pauperismo, la diatriba fra Stato e Chiesa, l’università, il terrorismo mistico, il processo indiziario, l’ospedale e il vescovado, perfino l’organizzazione turistica, e sostituite le Maldive a Gerusalemme e avete tutto, compresa Guida Michelin».