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 2012  dicembre 30 Domenica calendario

CHI DICE CHE IL TEMPO SCORRE?


Ma il tempo scorre davvero? La domanda sembra paradossale, ma la settimana scorsa si è tenuta a Città del Capo una vivace conferenza interdisciplinare centrata su questa domanda, mettendo a confronto riflessioni sulla natura del tempo in un arco di discipline che va dalla fisica alla filosofia, dalla psicologia all’antropologia. Il titolo dell’incontro, organizzato da Huw Price, filosofo dell’Università di Cambridge e grande esperto di filosofia del tempo, e dai membri del «Centro di ricerca sul Tempo» dell’Università di Sydney, era la domanda: «Abbiamo bisogno di una fisica dello "scorrere del tempo"?». Il dialogo fra le discipline si è rivelato fluido e costruttivo, confermando come l’auspicato avvicinamento fra scienze della natura e scienze dell’uomo sia bene in corso nel mondo. Non sono mancate divergenze, ma la conferenza ha mostrato ancora una volta che discipline molto diverse possono parlare un linguaggio mutualmente comprensibile e offrire elementi di risposta l’una ai problemi dell’altra, e ha addirittura portato a una insospettata convergenza: dopo una settimana di animate discussioni è emerso un certo consenso su una risposta negativa alla domanda del titolo: «No, non ci serve una fisica fondamentale del "passaggio del tempo"». Un po’ come dire: «il tempo, in fondo, non passa davvero»...
Il problema di cosa sia il fluire del tempo nasce nella fisica classica ed è stato sottolineato dai filosofi fra il XIX e il XX secolo, ma diventa assai più acuto con la fisica moderna. La fisica descrive il mondo per mezzo di formule che dicono come variano le cose in funzione della «variabile tempo». Ma si possono anche scrivere formule che descrivono come variano le cose in funzione della «variabile posizione», oppure come varia il gusto di un risotto in funzione della «variabile quantità di burro». Ora la quantità di burro o la posizione nello spazio non "scorrono", mentre il tempo sembra "scorrere". Da dove viene la differenza? Un altro modo di porre il problema è chiedersi cosa sia il "presente". Diciamo che le cose che esistono sono quelle nel presente: il passato non esiste (più) e il futuro non esiste (ancora). Ma nella fisica non c’è niente che corrisponde alla nozione di "adesso". Confrontate "adesso" con "qui". "Qui" designa il luogo dove sta chi parla: per due persone diverse, "qui" indica due luoghi diversi. Anche "adesso" designa l’istante in cui la parola viene detta. Ora nessuno si sognerebbe di dire che le cose "qui" esistono, mentre le cose che non sono "qui" non esistono: perché allora diciamo che le cose che sono "adesso" esistono e le altre no? Il presente è qualcosa di oggettivo nel mondo, che "scorre" e fa "esistere" le cose l’una dopo l’altra, oppure è solo soggettivo come "qui"?
La questione può sembrare cervellotica. Ma la fisica moderna l’ha resa scottante, perché la relatività di Einstein ha mostrato che la nozione di "presente" è addirittura mal definita. Chiedersi se una cosa avviene "proprio ora" ha significato solo per cose vicine nello spazio; chiedersi cosa stia succedendo "ora" su una galassia lontana è senza significato, come chiedersi cosa succede "qui" a Pechino. Gli eventi su una galassia lontana si dividono in tre gruppi: quelli per noi "passati", di cui vediamo gli effetti, quelli "futuri", sui quali possiamo influire, e un gruppo intermedio di eventi né passati né futuri, che include però milioni di anni sulla galassia. Per le cose vicine, questo lasso di tempo «né passato né futuro», è molto breve (un nano-secondo a qualche metro da noi e un milli-secondo a New York), quindi non ci rendiamo conto dello «spessore del presente» che alle nostre distanze è più piccolo della nostra soglia di percezione. Ma lo «spessore del presente» esiste, e mostra che l’idea intuitiva di "presente", come insieme degli eventi che accadono «ora nell’universo», è solo una limitatezza delle nostre percezioni. Il presente come lo concepiamo di solito, non esiste.
Cosa dedurne? Fisici e filosofi sono arrivati alla conclusione che l’idea di un presente dell’universo è un’illusione, e lo "scorrere" universale del tempo ha carattere illusorio. In una lettera commovente scritta alla vedova quando muore il suo grande amico italiano Michele Besso, Albert Einstein scrive: «Michele è partito da questo strano mondo, un poco prima di me. Questo non significa nulla. Le persone come noi, che credono nella fisica, sanno che la distinzione fra passato, presente e futuro non è altro che una persistente cocciuta illusione». L’alternativa è l’immagine dell’«universo blocco»: passato, presente e futuro dell’universo rappresentati in un unico «blocco». Nel blocco, il significato della parola "adesso" è come il significato di "qui": solo il particolare punto in cui la parola viene pronunciata. Piuttosto che un tempo che "scorre", siamo noi stessi, o meglio la nostra coscienza, ad "arrampicarsi" pian piano su per una linea dentro l’universo blocco, come un tarlo che scava il tronco di un albero.
Ma è davvero così? Non manca qualcosa che spieghi il fatto che il tempo "scorre", "passa", "fluisce"? Lo scorrere del tempo è palese per ciascuno di noi: i nostri pensieri e il nostro parlare esistono nel tempo, la struttura stessa del nostro linguaggio richiede il tempo (una cosa "è", oppure "era", oppure "sarà"). Possiamo immaginare un mondo senza colori, senza materia, anche senza spazio, ma non senza tempo. È Heidegger che ha espresso con forza questo nostro «abitare il tempo». Possibile che il fluire del tempo che Heidegger pone come primitivo, sia assente dalla descrizione fondamentale del mondo? Alcuni filosofi, tra i quali i più devoti heideggeriani, ne concludono che la fisica non è capace di descrivere gli aspetti più fondamentali del reale, e la squalificano come un modo di conoscenza fuorviante. Ma troppe volte in passato ci siamo resi conto che sono le nostre intuizioni immediate a essere sbagliate: se ci fossimo attenuti a esse, penseremmo ancora che la Terra sia piatta e il Sole le giri intorno. Le intuizioni si sono evolute sulla nostra esperienza limitata. Quando guardiamo un po’ più lontano, scopriamo che il mondo non è come ci appare: la Terra è rotonda e a Città del Capo hanno i piedi in su e la testa in giù. Fidarsi delle intuizioni immediate, più che dei risultati di una disamina collettiva razionale, attenta e intelligente, non è saggezza: è la presunzione del vecchietto che si rifiuta di credere che il grande mondo fuori dal paesino dove vive possa essere diverso da quello che lui ha sempre visto.
Ma allora da dove viene la vivida esperienza dello scorrere del tempo? La conferenza di Città del Capo ha offerto articolati elementi di risposta, combinando pezzi del puzzle provenienti da discipline diverse. Gli psicologi hanno puntato il dito sulla percezione diretta del fluire, per esempio quando vediamo il movimento. Le lancette di un orologio che segnano ore, minuti e secondi si muovono tutte, ma la lancetta dei secondi, in più, la vediamo muovere. Ma la percezione, insegnano gli studi sui neuroni, è il risultato di una ricostruzione complessa all’interno del nostro cervello, non un’esperienza diretta. Un contributo cruciale viene dagli psicologi dell’infanzia e dagli studi di antropologia e linguistica. I primi esplorano il formarsi dell’organizzazione temporale dell’esperienza adulta, nei bambini intorno ai quattro e cinque anni. I secondi, sottolineano come le nozioni di tempo siano profondamente diverse in culture lontane. Chris Sinha, dell’Università di Lund in Svezia, ha scoperto che la popolazione degli Amondawa, in Amazonia, parla una lingua in cui non esiste una parola che traduce "tempo", e in cui l’idea di un "tempo" in sé, distinto dagli avvenimenti, non esiste. Queste ricerche convergono nell’indicare che la percezione del tempo, lungi dall’essere esperienza primaria e universale, sia piuttosto una ricca costruzione sociale, cresciuta lentamente nella storia, influenzata per esempio dall’introduzione di calendari e orologi. La nostra nozione di tempo è un potente «strumento cognitivo culturale», per mezzo del quale strutturiamo il nostro vivere comune, prima di essere esperienza diretta.
Ma la possibilità stessa di avere tale strumento non richiede che esista qualcosa di fisico a cui il fluire del tempo faccia riferimento? Un’idea sulla quale si sono trovati a convergere diversi interventi a Città del Capo è che il fluire del tempo emerga come nozione fisica, ma nell’ambito della termodinamica, invece che nelle leggi fondamentali. I fenomeni termodinamici (temperatura, calore, equilibrio...) distinguono passato e futuro: il calore fluisce dai corpi caldi a quelli freddi e non viceversa. La fisica della fine del XIX secolo, e in particolare il genio di Boltzmann (morto suicida perché le sue idee non erano state prese sul serio) hanno mostrato che questi fenomeni sono statistici, appaiono quando si considerino sistemi con tantissime componenti (come l’aria, fatta di miriadi di molecole). Un termometro "vede" solo un valore medio dei movimenti delle molecole e la specificità dei fenomeni termodinamici nasce da questo "fare la media". Questa potrebbe essere la chiave per il mistero del tempo. Il "presente" non esisterebbe in modo oggettivo più di quanto non esista un "qui" oggettivo, ma le interazioni microscopiche del mondo fanno emergere fenomeni temporali per un sistema (come noi stessi) che interagisce solo con medie di miriadi di variabili. In qualche modo, certo ancora poco chiaro, la nostra coscienza si costruisce su questi fenomeni. A una vista acutissima il tempo "non scorre" e l’universo è un blocco di passato presente e futuro, ma noi esseri coscienti abitiamo il tempo perché vediamo solo un’immagine sbiadita del mondo; in questo sfocamento del mondo nasce la nostra coscienza dello scorrere del tempo.
Chiaro? No, certo. Molto rimane da capire, per antropologi e psicologi, per le scienze cognitive che cercano di sciogliere il nodo di comprendere questa incredibile macchina che è il nostro cervello, per i fisici che vogliono capire l’emersione termodinamica del tempo, per i filosofi che cercano di porre ordine nel guazzabuglio e mettere a nudo errori e ingenuità logiche di questo o di quello. Ma il comune terreno fornito dall’adesione a un elementare naturalismo – il rifiuto di idee contraddette dalla nostra conoscenza del mondo – permette a saperi diversi di parlarsi, e fare passi avanti verso la comprensione. Scrivendo questo resoconto della conferenza durante il lungo volo notturno di ritorno da Città del Capo, mentre il resto dei passeggeri dorme, e ripensando agli interventi e ai dibattiti vivaci, mi sembra che qualcosa del mistero si stia diradando. L’Africa scorre oscura sotto il mio oblò. Quell’Africa dalla quale la nostra specie è partita centomila anni fa per esplorare il mondo e imparare a guardare più lontano. Chissà se uno dei nostri antenati, alzandosi e mettendosi in cammino verso gli aperti spazi del nord, abbia guardato il cielo, e abbia mai potuto immaginare che un suo lontano nipote si sarebbe interrogato sulla natura del tempo, volando in quel cielo.