Alessandro Penati, la Repubblica 29/12/2012, 29 dicembre 2012
LEZIONE THAILANDESE PER VINCERE LA CRISI
SECONDO il Financial Times ci sono analogie tra la crisi asiatica del 1997-98 e quella odierna dell’Eurozona. Allora i Paesi asiatici venivano da un periodo di forte crescita finanziata con afflussi di capitale, attirati dalla mancanza di rischi valutari perché i cambi erano ancorati al dollaro. La controparte dell’afflusso di capitali erano disavanzi crescenti delle partite correnti (le esportazioni nette di beni e servizi). L’abbondanza di capitali in entrata, e la conseguente riduzione del costo del denaro, alimentarono però bolle immobiliari, una spesa pubblica bulimica e investimenti poco redditizi.
I timori per la sostenibilità del debito della Thailandia innescarono la crisi. La conseguente fuga dei capitali esteri provocò crac bancari, il credit crunch, il crollo del settore immobiliare e della Borsa ( — 80%) e una forte recessione.
La crisi locale di un piccolo Paese si diffuse rapidamente a Indonesia, Malesia e Filippine, per poi toccare Corea, Hong Kong, e quindi Cina. Ovunque Borse a picco e recessione.
Analogie impressionanti. Anche i Paesi dell’Eurozona (salvo la Germania) hanno approfittato della stabilità del cambio ottenuta con l’euro per importare capitali che hanno finanziato a basso costo spesa pubblica improduttiva, investimenti poco redditizi e bolle immobiliari. Il debito pubblico italiano in mani straniere è passato da 320 miliardi di inizio euro a 813 di metà 2001: 500 miliardi in meno dai risparmi degli italiani che hanno dato l’illusione di poter convivere per sempre, e a basso costo, con una spesa pubblica elevata e inefficiente. Sono poi bastati timori per il debito della piccola Grecia a innescare una crisi che ha contagiato Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia. Seguita da crisi dei sistemi bancari, credit crunch, caduta dell’attività, crash in borsa (—70% in media).
Ma il più importante fra gli elementi comuni è il crescente disavanzo delle partite correnti che precede la crisi del debito di un Paese. Si pensa solo al deficit interno di finanza pubblica, dando per scontato
che, senza rischi valutari, quello esterno è irrilevante. Invece deve essere comunque finanziato dal flusso di capitali stranieri, che necessitano della fiducia nel Paese. E’ il principale difetto di fabbrica dell’Eurozona: solo la Germania esportava capitali; tutti gli altri li importavano. Così l’Italia è passata da un avanzo di 20 miliardi a 60 di deficit; la Spagna è arrivata a 114, e la Grecia a 37.
Dopo quattro anni di crisi i Paesi asiatici avevano già recuperato i livelli di attività precedenti, le partite correnti erano in surplus e le Borse aumentato di 2,5 volte il valore. A quattro anni dal crash Lehman, il Pil italiano è ancora 7% sotto al massimo pre crisi: se anche crescessimo da oggi all’1,2%, ci vorrebbero altri 6 anni per riportare il Pil al livello di 5 anni fa. I Paesi dell’Asia uscirono rapidamente dalla crisi perché poterono svalutare massicciamente il cambio, e beneficiare della ripresa mondiale. Oggi, invece, il mondo ristagna e l’uscita dall’euro comporterebbe costi proibitivi. Per l’aggiustamento delle partite correnti, la “svalutazione interna”, ovvero la riduzione del costo del lavoro rispetto ai Paesi concorrenti, diventa la strada obbligata. L’Irlanda, che ha drasticamente tagliato il suo costo relativo del lavoro del 26%, è già tornata in avanzo; Grecia, Spagna e Italia, che lo hanno tagliato del 23%, 16% e 10%, hanno ridotto sostanzialmente i disavanzi nell’ultimo anno a 6, 17 e 21 miliardi, rispettivamente.
Due notizie andrebbero comunicate con chiarezza agli italiani. Quella cattiva è che la strada della svalutazione interna è inevitabile, lunga e costosa, perché penalizza i redditi, già aggravati dalle politiche di contenimento della domanda interna (per far spazio alle esportazioni). Quella buona è che appena si raggiunge un avanzo stabile delle partite correnti, ritorna la fiducia dei capitali stranieri e riparte il circolo virtuoso della crescita e della Borsa. Non siamo neppure vicini a questo punto di svolta. Forse nel 2014. Per il 2013, tantissimi auguri.