Andrea Minuz, 31 dicembre 2012
Il 1840 coglie Verdi nel «punto più basso della sua depressione». In meno di tre anni sono morti i suoi due piccoli figli e infine sua moglie
Il 1840 coglie Verdi nel «punto più basso della sua depressione». In meno di tre anni sono morti i suoi due piccoli figli e infine sua moglie. È rimasto solo, a Milano, dove si era trasferito dal ’32. Anche se è riuscito a rappresentare due opere, non ha sfondato, come diremmo oggi ma pure allora, e insomma medita di tornarsene a suonare l’organo a Busseto. Anzi, ha già compilato la lista della mobilia della casa milanese da rispedire indietro; una lista in cui c’è tutta l’impietosa malinconia del suo trasloco [«sei materassi, sei cuscini in un involto», ecc..]. È a questo punto che il Merelli [Bartolomeo, ndr], incontrandolo in strada, gli ficca in tasca un nuovo libretto del Solera, incentrato sulla figura del re Nabucodònosòr. L’idea è rappresentarlo a costo zero, sfruttando scene e costumi di un vecchio allestimento. Nessuno pare troppo convinto dell’operazione. Meno di tutti lo è Verdi, per i motivi di cui sopra. Torna a casa con il manoscritto in tasca, che non si è degnato neanche di aprire. Appena entrato, lo scaraventa contro il muro imprecando. Infine si calma, si avvicina; posa lo sguardo sulla pagina dove il fascicolo è rimasto aperto cadendo in terra e se ne sta lì, immobile, come ipnotizzato a fissare quel verso: «Va’, pensiero, sull’ali dorate». E lì, signori, cambia la storia d’Italia.