Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 31/12/2012, 31 dicembre 2012
PERCHÉ LA CURA DI KEYNES NON SERVE (PER ORA) ALLA CRISI
Pochi giorni fa, un lettore ha proposto alla nostra attenzione un raccontino apparentemente paradossale che descrive come l’investimento di una modesta cifra nel sistema economico di un piccolo paese provochi inaspettatamente un effetto a catena: tutti possono pagare i loro debiti e tutti sono felici. In realtà il raccontino illustra un caposaldo della teoria elaborata dal celebre economista inglese John Maynard Keynes e dal suo compatriota Lord Kahn negli anni Trenta del secolo scorso. Secondo questa teoria ogni euro investito dallo Stato nel sistema economico può moltiplicarsi per cinque (o più) accrescendo la liquidità del sistema con immissioni di denaro che verrà sperabilmente recuperato grazie all’aumento del Pil e del gettito fiscale. Questa teoria è stata applicata con successo dopo la crisi del ’29 sia in America che, purtroppo, nella Germania di Hitler. La fama come economista di Keynes negli ultimi decenni ha subito la stessa oscillazione dei titoli azionari. Ma è difficile non sospettare che tutti gli Stati perseguano di fatto una politica keynesiana. Infatti, chi potrebbe sostenere che gli impiegati nella pubblica amministrazione siano solo quelli strettamente necessari? Anche nella spietata America lo Stato potrebbe liberarsi senza danno di un 5% e più degli elementi meno dotati. Ma il farlo, avrebbe un effetto rovinoso sui consumi e quindi sul benessere stesso della nazione. A riprova, i risultati della rovinosa politica anti-keynesiana del governo Monti, basata sulle tasse invece che sugli investimenti, sono sotto gli occhi di tutti!
Alessandro Vetere
a_vetere@tin.it
Caro Vetere, l’arrivo della sua lettera ha coinciso con la lettura di due articoli ispirati dagli stessi concetti. Il primo è di Paul Krugman, commentatore del New York Times, premio Nobel per l’economia, convinto da tempo che sia possibile uscire dalla crisi soltanto con una forte iniezione di denaro pubblico nello spirito delle teorie di Keynes. L’autore ammette che gli Stati Uniti abbiano un colossale debito pubblico (un trilione e 89 milioni di dollari). Ma sostiene che questo debito sarebbe tranquillamente sostenibile se non fosse accompagnato da una depressione che ha ridotto l’occupazione, i consumi e gli investimenti. Il rilancio della crescita con forti iniezioni di denaro aumenterebbe il prodotto interno lordo e ridurrebbe proporzionalmente la percentuale del debito. Il secondo articolo è la lunga conversazione di un giornalista del New York Times con Adam Posen, economista americano ma membro, dal settembre del 2009, del Comitato per la politica monetaria della Banca d’Inghilterra.
Un anno dopo il suo arrivo a Londra, gli elettori britannici sono andati alle urne e il loro voto ha prodotto un ministero di centrodestra presieduto dal conservatore David Cameron. Contro la crisi il nuovo governo ha annunciato un cura in due fasi. Nella prima fase avrebbe praticato una politica di austerità e rigore, riducendo considerevolmente, tra l’altro, i quadri della funzione pubblica. Nella seconda fase vi sarebbe stato un ritorno alla crescita grazie al dinamismo del settore privato. Posen pensava invece, keynesianamente, che il miglior modo di affrontare la crisi fosse quello di consentire alla Banca d’Inghilterra un acquisto massiccio di bond sul mercato. La liquidità avrebbe rinvigorito l’economia e la ricapitalizzazione delle banche avrebbe favorito prestiti e investimenti. Se le cose del Regno Unito non stanno andando bene, dice implicitamente Posen, la colpa è di coloro che non mi hanno dato retta.
Dovremmo adottare anche noi la ricetta di Keynes e Posen? Qualcosa del genere è stato fatto prudentemente, grazie a Mario Draghi, dalla Banca centrale europea. Ma forse dovremmo ricordare che il rigore, nella strategia di Cameron e dei governi dell’eurozona, non è soltanto un omaggio all’ortodossia economica. Anche quando non viene ammesso esplicitamente, il rigore serve in buona parte a ridisegnare uno Stato assistenziale che nei sette decenni passati dalla fine della Seconda guerra mondiale è cresciuto al di là dei limiti imposti dalla ricchezza dei singoli Paesi europei. Che cosa sarebbe successo se la cura di Keynes, oltre che provocare inflazione, avesse persuaso i governi a rinviare la politica delle riforme?
Sergio Romano