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 2012  dicembre 31 Lunedì calendario

NEL PENTOLONE MAGICO DI GADDA

La maggior parte dei libri di Gadda, dall’Adalgisa alla Cognizione del dolore al Pasticciaccio, sono delle immense costruzioni, che raccontano di tutto, parlano di tutto, si estendono da tutte le parti, sfidano ogni limite; e poi, improvvisamente, la costruzione si interrompe, e rimangono delle grandiose rovine. Come diceva Proust, l’arte moderna, giunta alla vetta, deve includere in se stessa l’esperienza del fallimento. Verso la Certosa (riedita dalla Adelphi e in uscita in questi giorni, a cura di Liliana Orlando), pubblicata per la prima volta nel 1961, è invece una raccolta di testi brevi, legati tra loro da una fitta trama di relazioni. Comprende tre prose delle «Meraviglie di Milano» (1939), otto degli «Anni» (1943), e altre nove, scritte negli anni successivi.
La vetta simbolica del libro è probabilmente «Anastomosi». Con uno sguardo freddo, impassibile e lentissimo, a tratti acceso da furori e fulgori, Gadda racconta, da una specie di tenebroso teatro anatomico situato sopra e attorno la sala operatoria, una operazione chirurgica. Non c’è una sola parola che abbia qualcosa di decorativo: tutte le parole mirano ad esprimere con assoluta precisione e minuzia un evento, che ha qualcosa di sacro. Gadda narra ciò che vede dall’alto e dalla tenebra: ma questa visione è, al tempo stesso, un’impresa esoterica. Il corpo e i visceri sono un enigma; e il medico vi fruga, vi fruga, come se volesse scoprire «una qualche ostinata reticenza, una simulazione pervicace, antica». Mentre il chirurgo taglia, cuce e riallaccia, compie una sublime opera di conoscenza, che ripercorre coi ferri e colle agugliate la costruzione intima della natura.
Ho scritto decine di volte su Gadda: credo inutilmente; e ora vorrei limitarmi a qualcosa di apparentemente elementare, ma in realtà molto più essenziale: citare brani di Gadda, tratti dalla varietà incantevole di temi che compongono Verso la Certosa.


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«Abbozzo di un Ritratto».
Rapide e poi quasi a caso recuperate immagini d’una annotazione che fu attenta negli anni e sempre e comunque veridica, ma soverchiata dalla fatica e dal dolore. I luoghi e le stagioni in cui m’è occorso di accettar la vita o prestar l’opera, o donde mi sono dipartito da prestare altra opera o militare o civile o cavarne prigione o tomba, o cercarne scampo nelle rivenenti congiunture del possibile, i luoghi e i tempi si disegnano ancora nella memoria, forse per poco. La malvagità, la follia. Per me la povertà, la fame, i regolamenti rituali e i convenevoli infiniti impostimi dallo scarso cervello del mondo, timbri capovolti sui certificati e diplomi resi invalidi dalle concussioni e dai furti di segreteria, e d’altronde lo studio proprio e la diligenza a quaderno, i penetrali dove i giorni ripristinavano i giorni senz’altra speranza che un sogno: d’evadere l’educativo manicomio. I lari angosciati in vincoli, con silenti lacrime, il trombettio d’un paventato carnevale, i coriandoli sive confetti, il desiderio della solitudine e del silenzio e l’orrore del concupitissimo, dagli altrui timpani, canto e cantata: lo stesso temperamento di fuga (Jung) sortito dalle migrazioni d’ogni sopravvivente nella tarda testimonianza corporea, il rispetto per gli alti alberi e lo stormire delle lor fronde, la morte dell’amato fratello me prigione o sepolto, no, gli oscuri sensi della mia verità non trovano segno evidente in queste pagine: l’amarezza intera e la verità intera e profonda di quel che avrei dovuto inscrivervi se ne discostano troppo, esalate d’in vetta alla penna come le volute del fumo dal cigarrillo dell’annoiato. E come quel fumo alcun tempo dopo la cenere persiste, così potrà, dai labili riscontri che qui del mio male si accolgono, potrà emanare l’idea d’una sofferenza non piagnosa ma certa nella realtà del tempo irreparabile, e l’indizio e quasi il sottinteso d’una memore pietà: forse l’amore non astratto per la vita fraterna e il suo non astratto senso, voluto da Dio.


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«Immagine di un libro».
Double, double toil and trouble; Fire burn: and cauldron bubble. Una tensione magica sembra sostentar sulle fiamme il pentolone gaddiano dove ribollono, con parvenze inattese, creature e forme tuttavia venutegli dal mondo. Così dalle forconate che l’autore di quando in quando regala al suo lesso, taluno penserebbe a una cottura laboriosa, a una vana magia. Ma tutti i pezzi di mala bestia con tutti i sedani e tutte le carote ch’egli butta a vorticare e a dar vapore in quel bubbuglio, rivengono l’un dopo l’altro a galla secondo necessità: una rappresentazione formale s’adempie. Dalla congestione si schiarisce il disegno; nel disegno si ferma il giudizio; l’amarezza, il dolore disperato, lo scherno, la carità, la speranza; e incancellabile, il richiamo della terra.
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«Il barbiere di Siviglia».
Cesare Sterbini, romano, minutante della Finanza, presso la Regia Camera Apostolica, «nell’idioma greco, latino, francese e tedesco valentissimo», era nato nell’84 (morì nel ’31). Non fu pedissequo al Beaumarchais. Offrì al pesarese con un diavolo per capello un canovaccio brioso: due atti; abile disposizione delle scene; vivi e veri i personaggi; libretto in tutto degno del maestro. Uno stile rapido, nervoso, che sembra eccitare alla deflagrazione il fuggitivo e scoppiettante saccadè rossiniano, e l’intermittenza, il commento ironico o patetico profondo, del relativo pizzicato. L’entrata di Figaro è invenzione dello Sterbini, una trovata scenica delle più felici. Secoli di vita provinciale italiana hanno potuto maturarla, aurore splendide: tutte le città del silenzio e della bacinella, tutti gli amanti e tutti i barbieri dal passo furtivo nella notte sul decoro municipale del selciato, lungo l’ombra della torre guelfa, o al tacito veleggiare della luna, o al canto del gallo:
ah che bel vivere - che bel piacere
per un barbiere - di qualità… - di qualità…
ah bravo Figaro - bravo bravissimo,
fortunatissimo - per verità…
Seicento pagine, la partitura del «Barbiere». Non così fitte, certo né così nitide, come l’algebra delle partiture wagneriane. Qualche gocciolone d’inchiostro lungo le fughe e le rampicate delle note sul pentagramma; quasi d’un empito gocciolato giù dalla zàzzera o dalla penna d’oca del maestro; di quell’inchiostro color castagna d’India che noi abbiamo ancora conosciuto presso i nostri buoni Barnabiti. Talora poche rondinelle sui fili del telegrafo: i gorgheggi della Rosina, come d’usignolo al ramo: soli e irraggiungibili nella limpidità della notte.


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«Il risotto».
L’approntamento di un buon risotto alla milanese domanda riso di qualità, come il tipo Vialone, dal chicco grosso e relativamente più tozzo del chicco tipo Carolina, che ha forma allungata, quasi di fuso. Un riso non interamente «sbramato», cioè non interamente spogliato del pericarpo, incontra il favore degli intendenti piemontesi e lombardi, dei coltivatori diretti, per la loro privata cucina. Il chicco, a guardarlo bene, si palesa qua e là coperto dai residui sbrani d’una pellicola, il pericarpo, come da una lacera veste color noce o color cuoio, ma esilissima; cucinato a regola, dà luogo a risotti eccellenti, nutrienti, ricchi di quelle vitamine che rendono insigni i frumenti teneri, i semi, e le loro bucce velari. Il risotto alla paesana riesce da detti risi particolarmente squisito, ma anche il risotto alla milanese; un po’ più scuro, è vero, dopo e nonostante l’aurato battesimo dello zafferano.
Recipiente classico per la cottura del risotto alla milanese è la casseruola rotonda, e la ovale pure, di rame stagnato, con manico di ferro; la vecchia e pesante casseruola di cui da un certo momento in poi non si sono più avute notizie; prezioso arredo della vecchia, della vasta cucina; faceva parte come numero essenziale del «rame» o dei «rami» di cucina, se un vecchio poeta, il Bassano, non ha trascurato di noverarla ne’ suoi poetici «interni», ove i lucidi rami più d’una volta figurano sull’ammattonato, a captare e a rimandare un raggio del sole che, digerito dagli umani il pranzo, concocto prandio, decede. Rapitoci il vecchio rame, non rimane che aver fede nel sostituto: l’alluminio.
La casseruola, tenuta al fuoco pel manico e per una presa di feltro con la sinistra mano, riceva degli spicchi o dei minimi pezzi di cipolla tenera, e un quarto di ramaiolo di brodo, preferibilmente brodo al foco, e di manzo; e burro lodigiano di classe. Burro, quantum prodest, udito il numero de’ commensali. Al primo soffriggere di codesto modico apporto butirroso-cipollino, per piccoli reiterati versamenti sarà buttato il riso: a poco a poco, fino a raggiungere un totale di due tre pugni a persona, secondo appetito prevedibile degli attavolati; né il poco brodo vorrà dare inizio per sé solo a un processo di bollitura del riso; il mestolo (di legno, ora) ci avrà che fare tuttavia; gira e rigira. I chicchi dovranno pertanto rosolarsi e a momenti indurarsi contro il fondo stagnato, ardente, in codesta fase del rituale, mantenendo ognuno la propria «personalità»: non impastarsi e neppure aggrumarsi.
Pietro Citati