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 2012  dicembre 31 Lunedì calendario

LA SIGNORA DELLA SCIENZA. DA UN POLLO ARRIVO’ AL NOBEL —

«Non ho mai avuto paura né della morte né delle persecuzioni né delle malattie: ho un totale disinteresse alla mia persona», disse Rita Levi Montalcini a chi scrive il primo agosto del 2001. Era stata nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica di allora, Carlo Azeglio Ciampi, un altro italiano dotato del coraggio di non seguire le mode del momento. È difficile esplorare gli animi al punto di poter sapere se questa convinzione sulla morte sia resistita fino a ieri, quando a 103 anni di età, con una vista da tempo compromessa, la più anziana in vita tra quanti hanno meritato un premio Nobel si è spenta in casa a Roma.
Sul disinteresse per la propria persona l’affermazione era vera fino a un certo punto. Con un garbo femminile non piegato dall’età, finché ha frequentato Palazzo Madama Rita Levi Montalcini non era indifferente a se un abito le stava bene o male, aveva un suo particolare modo di piacere. Ma era vero che a lungo della morte non ha avuto paura. Lo ripetè quando compì 100 anni affermando che «non conta quanto si è vissuto, ma il messaggio che si è dato». Invitò i giovani a credere «nei valori, laici o religiosi che siano, non fa differenza», purché siano «valori, perché dopo la morte rimangono i messaggi che noi abbiamo lasciato». E il suo è stato un messaggio di una vitalità ammirevole anche quando non era ammirata, anzi non doveva farsi vedere.
Nata a Torino nel 1909 da genitori ebrei sefarditi, fu maneggiando pezzi di pollo nella sua minuscola camera da letto in quella città che la giovane Rita gettò le basi delle ricerche capaci di farle ricevere nel 1986 il Nobel per la medicina con l’americano Stanley Cohen. Per avere idea di quanto non fosse provinciale, era in Danimarca per una conferenza mentre nel 1939 scoppiò la Seconda guerra mondiale. Tornata, le leggi razziali imposte dal Fascismo le impedivano di compiere le sue ricerche in laboratori universitari. La campagna antisemita era cominciata nel 1936 «in modo subdolo, con attacchi prima sporadici poi più frequenti sui quotidiani», come ha ricordato in Elogio dell’imperfezione, Garzanti, 1990, serbando un distaccato ribrezzo per quei giornalisti e per i delatori. E lei, incapace di star ferma, si inventò il suo laboratorio dal 1941 al 1943 nella casa di Torino, poi in una vicino Asti nella quale sfollò.
Due termostati al posto di un’incubatrice, mini forbici per uso oftalmico, aghi trasformati in bisturi passandoli su una mola, un microscopio che si portava nel rifugio antiaereo durante i bombardamenti: fu con questi mezzi che la ricercatrice clandestina studiò su embrioni di pollo «l’interazione tra i fattori genetici e ambientali nel controllo dei processi differenziativi del sistema nervoso».
Lo spazio di un articolo porta a far scorrere come fotogrammi veloci momenti intensi. La fuga a Firenze per non finire nei campi di sterminio nazisti. Rita attutì il senso di colpa per non essersi messa a combattere da partigiana sfidando un’epidemia di tifo addominale nei feriti che curava da medico e infermiera. Nel 1947, in epoca di pace, nuovo incontro con Renato Dulbecco, già compagno di studi, su una nave diretta in America. Restò quasi trent’anni, lei, nell’Università di St. Louis. A chi l’ha conosciuta meglio è rimasto impresso un intreccio tra tenacia, capacità esplorativa e attenzione per l’estetica tra le qualità che hanno permesso la sua principale ricerca.
Il Nobel lo ebbe per aver messo a fuoco il Nerve growth factor, Ngf, fattore di crescita dei nervi. Le sue scoperte hanno spinto in avanti le cure per patologie della vista e affinato la comprensione dei meccanismi attivati da farmaci già in uso per la depressione e altre malattie. Spiega Enrico Alleva, responsabile di un laboratorio di neuroscienze comportamentali all’Istituto superiore di Sanità: «Rita Levi Montalcini si accorse che una sostanza contenuta nei tumori o nei veleni di serpenti poteva stimolare i gangli dell’embrione del pollo: li faceva crescere come una capigliatura. Se ne era innamorata. In effetti, quell’effetto-alone ha un che di stupendo, e ogni volta nel rivederlo al microscopio diceva: "È bellissimo"».
Nella sua casa di Roma con un De Chirico, piante e molta luce, a chi scrive negli anni 90 la professoressa spiegava che era il rischio di decadimento delle cellule cerebrali a preoccuparla, non la morte. Ma lo diceva con un ottimismo argentato, fluido. È stata la capacità di ascolto una delle sue qualità. Alleva lo aveva conosciuto perché a 13 anni possedeva un falco che fuggì sul suo terrazzo. Si accorse che si interessava al comportamenti degli animali, gli chiese di parlarne.
Si definiva di sinistra, Rita Levi Montalcini. «Nessuna retorica autocelebrativa. Del nazismo diceva: mi ha dato l’opportunità di dimostrare agli americani che anche gli italiani sanno fare ricerca, come sanno i nostri ragazzi costretti a studiare all’estero», racconta Massimo Bray, vicino a lei dal 1993 al 2002 mentre la professoressa presiedeva la Treccani.
Nel 2007 i senatori a vita salvavano nelle votazioni un governo Prodi gracile al Senato. Francesco Storace li attaccò, sostenne che lei faceva «pena». A difenderla fu Giorgio Napolitano: «Tentare di intimidire la professoressa, che ha fatto tanto onore all’Italia, è semplicemente indegno». Ieri il presidente è stato avvertito dalla scomparsa dalla nipote, Piera, e lo ha ripetuto: è stata «un orgoglio per l’Italia».
Maurizio Caprara