Sergio Romano, Corriere della Sera 31/12/2012, 31 dicembre 2012
MA L’EUROPA DEL 2012 NON E’ POI COSI’ MALE - I
bilanci del 31 dicembre hanno, come quelli delle aziende, la colonna degli attivi e quella dei passivi. Scritta in nero, alla prima linea della prima colonna, metterei l’Europa. So che questa scelta sembrerà paradossale e sbagliata. Come parlare bene dell’Unione in un momento in cui la produzione cala, i consumi languono, la disoccupazione cresce e le tasse aumentano? Ma ogni giudizio è comparativo e lo stato dell’Europa mi sembra alquanto migliore di quello del dicembre 2011. Allora avevo l’impressione che l’Unione Europea fosse diventata una pericolosa combinazione di egoismi e vittimismi, di miopie e rancori. Oggi il quadro è cambiato.
I Paesi dell’eurozona hanno capito che la loro moneta è un bene comune e che nessuno potrà salvare se stesso senza concorrere alla salvezza degli altri. Abbiamo il Meccanismo europeo di stabilità (il Fondo salva Stati), una Banca centrale che non si limita a garantire la tenuta della moneta e contrasta sui mercati le offensive della speculazione. Abbiamo un progetto per la creazione dell’Unione bancaria, e persino la mutualizzazione del debito (gli eurobond) può essere discussa ora senza suscitare scandali e i veti della Germania federale. Nel 2013 è sfortunatamente improbabile che l’economia ricominci a crescere, se non verso la fine dell’anno. Ma se la crisi servirà all’integrazione europea potremo dire, alla fine, che ne valeva la pena. Perderemo la Gran Bretagna lungo la strada? Peccato, ma sapevamo da molto tempo che le due strade, la nostra e quella degli inglesi, non erano convergenti. Un’Europa più omogenea è meglio di una Unione ambigua e contraddittoria in cui ciascun membro abbia il diritto di scegliere, come vorrebbe David Cameron, la politica che maggiormente gli conviene.
Se lo sguardo si sposta verso la costa meridionale del Mediterraneo, il giudizio è alquanto diverso. Alla fine del 2011 sembrava possibile sperare che la caduta dei tiranni avrebbe favorito la nascita di alcune democrazie arabe. Oggi constatiamo che il vuoto creato dal crollo dei regimi autoritari è stato riempito da una forza che misura i comportamenti sociali con criteri prevalentemente religiosi e decide l’orario dei negozi in funzione della preghiera del mattino. Chi pensava che l’eliminazione di Gheddafi avrebbe aperto ai libici la strada della democrazia non riconosce più il Paese che aveva creduto di liberare. In Siria si combattono contemporaneamente tre guerre: quella dei democratici contro il regime, quella dei sunniti contro laici e alauiti (un ramo della famiglia sciita), e quella (dietro le quinte) delle potenze che cercano di condizionare a proprio favore i risultati del conflitto. L’instabilità, nel frattempo, ha provocato una crisi economica che avrà l’effetto di peggiorare lo stato della regione. Le masse scese nelle piazze arabe alla fine del 2010 erano arrabbiate. Quelle che potrebbero tornare nelle piazze durante il 2013 saranno arrabbiate e affamate.
Il 2013, negli Stati Uniti, sarà il primo anno di un nuovo Obama, meno condizionato dall’ansia della rielezione, ma ancora costretto a gestire il problema del debito e della crescita con una Camera dei rappresentanti in cui una fazione del partito repubblicano accusa il presidente di essere un pericoloso socialista europeo e desidera, a qualsiasi costo, il fallimento della sua politica. Per l’Europa, comunque, Barack Obama è probabilmente l’uomo che saprà meglio governare il declino della potenza americana nel mondo. Il rapporto fra le due sponde dell’Atlantico è cambiato. Per molto tempo abbiamo avuto bisogno di un’America forte, capace di garantire la nostra sicurezza. Oggi abbiamo bisogno di un’America consapevole della sua maggiore fragilità internazionale e della necessità di utilizzare con prudenza la forza di cui ancora dispone.
Non sarà sempre facile, nel 2013, essere amici della Russia. Putin ha una concezione autoritaria dello Stato. È un modernizzatore, ma sembra spesso dimenticare che lo sviluppo del Paese dipende in ultima analisi dalla sua società civile. I dimostranti di Mosca e Pietroburgo sono soltanto una minoranza, ma rappresentano una parte vitale del Paese e sono diretti eredi di quella intellighenzia che nessun autocrate o dittatore è riuscito a sopprimere. Per l’Europa il rapporto con la Russia non è meno importante di quello con l’America. Noi abbiamo bisogno del suo petrolio, del suo gas e del suo mercato; la Russia ha bisogno della nostra tecnologia e dei nostri investimenti.
La Cina, alla fine del 2012, ci appare con volti diversi. È stata ferita dalla crisi, ma è una grande potenza economica che ha nei suoi forzieri una parte consistente del debito pubblico americano. Ha un regime apparentemente solido, capace di alternare abilmente il momento della tolleranza e quello della repressione. Sembra avere inventato la formula magica per una indolore trasmissione del potere da una generazione all’altra. Sembra conciliare con successo l’intraprendenza economica e il controllo ideologico. Ma gli ultimi scandali hanno scoperchiato pentole maleodoranti di cui ignoravamo l’esistenza e un’onda della corruzione che è salita sino ai piani alti del palazzo. Non credo che la Cina rappresenti necessariamente un pericolo per la pace della regione (come sembrano pensare alcuni strateghi americani), ma il suo stile, soprattutto verso il Giappone, è diventato più brusco e risentito. E quello del Giappone, nel frattempo, non è meno altero e aggressivo. Lasciata a se stessa l’Asia, dal Pakistan alla Corea del Nord, non è più stabile e tranquilla di quanto fosse negli anni delle ingerenze europee e americane.
Nel 2013 vi saranno altre crisi e altri conflitti, soprattutto in Africa e in Medio Oriente. Che cosa accadrà del Venezuela dopo la scomparsa di Hugo Chávez e di Cuba dopo quella dei fratelli Castro? Che cosa accadrà della questione palestinese se Israele continuerà a rosicchiare i territori occupati con i suoi insediamenti? Che cosa accadrà in Iran dopo l’elezione di un nuovo presidente della Repubblica islamica? Non basta. Conviene ricordare che i mutamenti internazionali non dipendono soltanto da tradizionali fattori politici ed economici. Anche l’applicazione della tecnologia ai fattori della produzione può fare una improvvisa apparizione nel groviglio delle relazioni politiche e modificare i dati del problema. Sappiamo da molto tempo che esistono rocce scistose, relativamente prossime alla superficie della terra, in cui sono contenute quantità considerevoli di gas, soprattutto metano. Ma il loro sfruttamento su larga scala è diventato possibile soltanto quando le industrie del settore hanno messo a punto tecniche molto efficaci di perforazione orizzontale. Gli Stati Uniti sono ormai autosufficienti e potranno verosimilmente ridurre le loro importazioni energetiche. Altri Paesi (Canada, Cina, Polonia) hanno rocce scistose e potrebbero raggiungere gli stessi risultati. Che cosa accadrà nei Paesi che hanno goduto per molti anni di una rendita energetica? L’Arabia Saudita e gli emirati petroliferi del Golfo si sono serviti della loro ricchezza per fare investimenti in altri Paesi, spesso stravaganti, per importare armi e zittire i loro sudditi con un generoso regime fiscale e altri benefici. Che cosa accadrebbe se non potessero più contare sulla rendita? Che cosa farà la società se i sudditi diventeranno cittadini? Nel corso del Novecento la fame di petrolio e di gas ha provocato crisi e conflitti. Nei prossimi anni l’abbondanza potrebbe provocare, insieme a molti grattacapi ambientali, conflitti non meno gravi.
Sergio Romano