Roberto Bertinetti, Il Messaggero 31/12/2012, 31 dicembre 2012
L’IDENTIKIT NEL PIATTO
Il cuoco? «Un puro artista che muove l’uomo qualunque su un piano più profondo di Mozart», secondo il poeta britannico Wystan Hugh Auden. Con questo giudizio concorda il giornalista americano Adam Gopnik, autore di In principio era la tavola (Guanda, 350 pagine, 22 euro), saggio nel quale la storia dell’alimentazione si mescola con la nascita e il consolidarsi di quella che Norbert Elias definiva la civiltà delle buone maniere. Che presero a diffondersi nel momento in cui nelle corti europee, a metà Settecento, la forchetta sostituì l’uso delle mani. Nel medesimo periodo, narra Gopnik, nascono soprattutto a Parigi i ristoranti. Perché accade? La genesi ha radici filosofiche: la mente degli uomini inizia a cambiare prima del palato. Ci sono poi motivi di ordine commerciale e morale: nella metropoli francese vengono aperti al Palais Royal alcuni negozi di strada, il pensiero illuminista impone il consumo di piatti più semplici e meno grassi. Il termine restaurant appare intorno al 1750: indicava il brodo di manzo o di pollo, ma in fretta il piatto diede il nome ai locali dove veniva preparato.
Da allora il dibattito sulla supremazia di un tipo di cucina rispetto a ogni altra non si è placato. Ma, ricorda Gopnik, si tratta di una discussione ideologica, l’equivalente gastronomico dell’integralismo politico. A suo giudizio è solo una questione di abitudini e gusti. O almeno lo era prima che le mode in cucina iniziassero a cambiare velocemente e alcuni chef diventassero ovunque – Italia compresa – stelle della tv con programmi seguiti da milioni di persone.
IL VINO
Esemplare, tra i tanti citati da Gopnik, è il caso del vino, «l’unica bevanda che da adulti ci rende felici senza una ragione». I libri sul vino, al contrario, trovano mille modi per renderci infelici per una quantità di ragioni visto che a cadenza regolare impongono regole sempre diverse. E ciò che ieri appariva giusto o accettabile, oggi viene bandito e magari domani tornerà a guadagnare terreno. Morale in campo culinario, secondo Gopnik? Mai lasciarsi guidare dalla tv o dai critici gastronomici. Molto meglio assecondare i propri gusti.
È invece di taglio antropologico l’analisi sul cibo proposta da Marino Niola in Non tutto fa brodo (il Mulino, 182 pagine, 13 euro), indagine sulle diverse grammatiche alimentari, in particolare su quella italiana, sempre frutto di felici sintesi. La dieta mediterranea, ad esempio, è frutto di antichi processi di globalizzazione: non sarebbe infatti nata senza l’americanissimo tomato. E neppure esisterebbero le arance (in origine narany). Ancora: come immaginare l’eccellente parmigiana prima dell’arrivo dall’Oriente delle melanzane? La tavola ha dunque da sempre costituito una sorta di prova generale dell’umanità del futuro.
LA PIZZA
Se gli italiani molto hanno importato, assai di più hanno esportato. A cominciare dalla pizza, bandiera planetaria della penisola. E’ dalla fine del Settecento che il capolavoro della cucina povera ha iniziato la sua ascesa verso i quattro angoli del mondo. Parente alla lontana del nan indiano, della pita araba, della tortilla ispanica, ha stracciato ogni concorrenza. Ma i tentativi di introdurre varianti sono ancora innumerevoli: in Mongolia la fanno con il montone, a Mumbai con pollo, mandorle e curry. Ma è proprio questa predisposizione al meticciato che la fa essere di casa a Nashville come a Tallin, a Lagos come a Sydney.
LA FUSION
Nel suo saggio Niola offre le prove dei meccanismi di fusion che caratterizzano le abitudini alimentari sin dalla notte dei tempi. La conseguenza è che ogni cucina rappresenta la specchio di una civiltà. Per quanto poi riguarda il presente, il cibo è specchio della società occidentale, appesantita dall’abbondanza al punto da trasformare l’astinenza in un’etica e la magrezza in un segno di superiorità. Con il paradosso di un pianeta diviso tra i poveri che cercano di mangiare e i ricchi che cercano di non farlo. Sintesi conclusiva dell’indagine dell’antropologo? «E’ probabile che se a fare la storia sia una mano invisibile, come ripeteva Adam Smith, è certo che la mano in questione impugna da sempre una forchetta».
Roberto Bertinetti