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 2012  dicembre 03 Lunedì calendario

LE OSSESSIONI DI DE CHIRICO. LA BESTIA PIU’ NERA? LA PITTURA MODERNA

Pescando tra i ritagli di giornali usciti tra il 1938 e il 1978, Mario Ursino è riuscito a restituire un ritratto di Giorgio de Chirico nitido, sfaccettato e divertente, più completo di qualsiasi biografia. Lo ha fatto in «Giorgio de Chirico. L’uomo, l’artista, il polemico» (Gangemi editore) assemblando come tessere di un mosaico, le interviste al maestro della Metafisica, gli scritti critici dimenticati ma firmati da colleghi eminenti come Renato Guttuso, gli articoli dello stesso de Chirico apparsi sulla stampa e mai più ripubblicati, alcune cronache sull’annoso punto dolente della falsificazione delle sue opere, alcuni ricordi del gallerista veneziano Giorgio Zamberlan che negli anni Cinquanta organizzò nella sua galleria in Campo Santo Stefano importanti mostre dei quadri dell’artista, e infine una rassegna sulle interviste televisive al maestro condotte dal critico d’arte Franco Simongini.Scorrono le immagini vivissime e irresistibili tratteggiate da Camilla Cederna, che il 22 luglio 1962 va a trovare de Chirico nella sua casa-studio di piazza di Spagna e «invece di sembrarmi un nobile tapiro come credevo una volta, ha l’aspetto di un immenso pesce in piedi, e precisamente, specie se si mette di profilo, d’un bellissimo cefalo bianco e argento». Il pittore racconta alla giornalista di amare tutti gli animali, anche i topi: «Io quando posso salvare un topo lo salvo». E sentendosi domandare quando gliene capita l’occasione, precisa che a Firenze, ospite in una villa vicina all’Arno in un periodo in cui grossi topi venivano su dal fiume a rosicchiare nelle dispense e finivano nelle trappole messe dappertutto, lui si alzava di notte verso le due e le tre per liberarli, portando le trappole in riva all’Arno e aprendole: «Fu in quell’occasione che ebbi modo di studiare la curiosa psicologia di questi animali. Aprivo lo sportellino e loro non uscivano, così dovevo picchiare sul legno, gridare, insultarli per farli correre via. Ma non correvano via, facevano cinque o sei metri e si fermavano lì a guardarmi, perché, chi sa cosa temevano ancora, certo non avevano capito che animo sensibile è il mio». Soltanto davanti al millepiedi suda freddo e non rinuncia a sopprimerlo. «Perché sembra della spazzatura che corre, perché non ha forma». Ugualmente detesta le ostriche, che non hanno forma neppure loro, e perché gli ricordano la pittura moderna, «la bestia più nera di tutte».E qui interviene Zamberlan, a ricordare i primi scontri a Venezia nel 1948, con gli astrattisti guidati da Emilio Vedova, che volevano irrompere alla conferenza di inaugurazione della mostra di de Chirico nel Salone degli Specchi di Ca’ Giustinian. Ma l’artista vi arrivò sano e salvo facendosi scortare dallo stesso Zamberlan che da giovane, a Treviso, era stato campione di lotta greco-romana e da «un bollente pittore siciliano» che non lo abbandonò un istante. Della sua polemica con i «modernisti» si tratta ampiamente nel capitolo degli scritti critici. Non mancano le testimonianze affettuose, come quella di Bruno Caruso che esce dallo studio verso mezzogiorno perché sa che a quell’ora incontrerà de Chirico a via Condotti, quasi sempre acquattato al Caffè Greco: «È una presenza immutabile e perenne perché anche quando cammina sembra immobile come una statua o come un vecchio tricheco imbalsamato». E quando decide di smettere di salutarlo, «per togliergli il piccolo fastidio di quella inutile consuetudine» comincia a sognarlo «per diverse notti di seguito con inquietante insistenza». Da Simongini, forse il critico che più di ogni altro è stato vicino al «pictor optimus» seguendolo anche nei suoi viaggi, veniamo a sapere che «in Italia i giornali hanno sempre dato un’immagine deformata del pittore, descrivendolo come una persona dura e sprezzante». Invece era tutto il contrario. Si definiva «l’uomo più gentile d’Europa». Era pigro. «Anche quando è fuori Roma, in albergo, trascorre gran parte del tempo seduto in poltrona nella hall a disegnare, per nulla disturbato dalla gente e dalle orchestrine che suonano motivi allegri solo per lui (al Danieli di Venezia gli hanno addirittura dedicato una canzone)». Era ghiotto di crostate, budini, gelati al cioccolato. Mangiava poco la carne. Non gli piacevano affatto l’anguria e il melone. Gradiva molto l’uva. Beveva solo acqua minerale e, prima di ogni pasto, il Punt e Mes con poco ghiaccio.
Lauretta Colonnelli