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 2012  dicembre 30 Domenica calendario

MONTESSORI, IL METODO DELLA GIOIA

Fino all’entrata in vigore dell’euro in Italia, nel 2002, era ancora possibile vederla raffigurata sulle banconote da mille lire e leggerne il nome: Maria Montessori. Non tutti sapevano chi fosse quella signora dai capelli bianchi raccolti in una crocchia dietro la nuca, che sulle mille lire aveva preso il posto di Giuseppe Verdi e di Marco Polo. Anzi, diciamo pure che la stragrande maggioranza degli italiani non ha mai saputo esattamente chi fosse e ancora oggi non sa esattamente chi sia Maria Montessori. Ma almeno, con quelle mille lire ancora circolanti — ne vennero stampate, dal 1990 al 1998, per una somma complessiva di due miliardi e centosessantamila lire —, in tanti avevano occasione di chiedersi chi fosse e cosa avesse fatto quella donna (l’unica, gli altri sono tutti uomini) per meritare di essere effigiata sulla banconota più usata quotidianamente dagli italiani. Quelli che se lo chiedevano, mentre se lo chiedevano, potevano cominciare a darsi una risposta semplicemente guardando il retro della banconota, che ritraeva due bambini che studiavano. In quelle mille lire, chiunque poteva comprendere, visivamente e immediatamente, l’importanza del trinomio Montessori-bambini-scuola e cogliere il grande valore di una persona, una storia, un messaggio, poi scientificamente riconosciuto come un «metodo», che ha precorso i tempi e ha cambiato il mondo più di Giuseppe Verdi e di Marco Polo messi assieme.

Sono passati dieci anni. Abbiamo gli euro (cioè, li ha chi li ha), ma non abbiamo più Maria Montessori, nemmeno in filigrana. Eppure lei — medico, scienziata, pedagogista, intellettuale —, conosciuta e venerata in tutto il mondo per il suo insegnamento, oggi è più viva che mai, eccetto che nel suo Paese, l’Italia. E da quel 6 gennaio 1907, quando a Roma, nel quartiere San Lorenzo, in via dei Marsi 58, come lei stessa scrive, «si inaugurò la prima scuola di piccoli bambini da tre a sei anni e sentii la indefinibile impressione che un’opera grandiosa sarebbe nata», è sempre presente tutte le volte che si affronti concretamente (e non attraverso retoriche petizioni di principio che, come vedremo, sono quanto di più lontano dal «metodo Montessori») la «questione sociale dell’infanzia». Espressione da lei coniata per indicare i diritti (negati) e lo sviluppo (ostacolato) della personalità e delle abilità dei bambini («L’infanzia è un disturbo costante per l’adulto, la sua situazione è simile a quella d’un uomo privo di diritti civili e d’un ambiente proprio») trent’anni prima che l’Onu adottasse la Dichiarazione dei diritti del bambino (1959) e sessant’anni prima che approvasse la Convenzione sui diritti dell’infanzia (1989, ratificata dall’Italia nel 1991).
La «questione» posta dalla Montessori, che fu anche la prima donna italiana a laurearsi in Medicina — nel 1896, a ventisei anni, vincendo mille pregiudizi e mille resistenze burocratiche —, doveva (deve) essere affrontata soprattutto attraverso la scuola. Una scuola a misura di bambino e in particolare dei bambini fra i tre e i dodici anni, che sono — sostiene sempre la signora Montessori — il vero oro di una comunità, il suo futuro, il suo senso. Mentre la scuola pubblica e privata, allora come oggi, salvo eccezioni d’élite, per i bambini italiani è soprattutto, nonostante gli sforzi e le buone intenzioni per lo più individuali, carcere, confino, esilio. I termini sono della Montessori (Il segreto dell’infanzia, Garzanti). E si attagliano perfettamente alle scuole dell’Italia contemporanea, luoghi stretti e affollati in cui i bambini sono «vittime della fatica scolastica, esposti a un tormento obbligatorio... animi contratti, intelligenze stanche, petti stretti e spalle ricurve, per la necessità di piegarsi per lunghe ore sui banchi a leggere e a scrivere, con la colonna vertebrale piegata a causa di quella posizione forzata» e, possiamo tranquillamente aggiungere, del peso assurdo di quegli zaini imbottiti di libri, quaderni e altro «materiale scolastico» che sono costretti a trasportare prima e dopo cinque lunghissime ore di detenzione.
Con la Casa dei Bambini inaugurata quel 6 gennaio 1907 a Roma (e il 18 ottobre 1908 a Milano, nel quartiere operaio dell’Umanitaria) cominciò una vera rivoluzione.
«Tutti gli intervenuti all’inaugurazione — scrive la grande pedagogista — rimasero meravigliati, dicendo tra sé: ma perché la Montessori esagera tanto l’importanza di un asilo per i poveri?». Invece, per quanto quella prima scuola «riuniva i figli piccoli degli operai in un casamento popolare», non era un asilo per poveri, anzi non era nemmeno una «vera opera sociale» con scopi di assistenza e beneficenza, ma «una istituzione privata fondata da una società edilizia, la quale doveva far ricavare il mantenimento della scuola come spesa indiretta di manutenzione dei locali».
In altri termini — come ricorda Paola Trabalzini, curatrice per l’Opera Nazionale Montessori di una edizione critica de Il metodo della pedagogia scientifica —, i proprietari di quei locali, gli azionisti dell’Istituto Romano dei Beni Stabili, li ristrutturarono per evitare che finissero in malora dopo la grande febbre edilizia degli anni Ottanta del 1800 e li riqualificarono, facendone delle «case moderne», areate, pulite, luminose e dotate di tutti i comfort, dal bagno all’ascensore, affinché fossero «non più unicamente il ricovero dei membri della famiglia, ma il luogo per vivere i legami famigliari in modo più intimo e solidale, più raccolto e partecipato». L’ambiente ideale per la Casa dei Bambini pensata dalla Montessori.
«La presenza della scuola nel casamento come proprietà collettiva, dato che essa era guadagnata dai genitori tenendo pulito lo stabile — nota Trabalzini —, realizzava il principio pedagogico della continuità educativa tra scuola e famiglia, consentendo nel medesimo tempo di educare gli adulti attraverso i bambini».

Fu subito un grande successo. Anche sulla stampa internazionale. «Vennero da Paesi lontani — scrive la Montessori —, specialmente dall’America (negli Stati Uniti oggi operano circa cinquemila scuole montessoriane, ndr) per constatare questi fatti sorprendenti e l’ultimo libro inglese che parlò di questi bambini s’intitolava New Children». La Montessori, la donna che aveva fatto parlare di sé per le sue battaglie a favore del voto femminile, la madre di un figlio illegittimo che non aveva arretrato di un passo per tenerlo con sé, accudirlo ed educarlo contro la morale dominante, era pronta a prendersi le sue rivincite. Nel 1909, con la pubblicazione de Il metodo della pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile nelle Case dei Bambini, sovvertì i luoghi comuni, rivoluzionò il sapere seduto su se stesso e dimostrò come grazie al suo sistema di educazione «i bambini erano sani come se avessero fatto cure di sole e di aria, poiché se cause psichiche deprimenti possono avere una influenza sul metabolismo abbassandone la vitalità, può anche avvenire il contrario: cioè le cause psichiche esaltanti possono riattivare il metabolismo e tutte le funzioni fisiche».
Il «metodo» partiva da una considerazione semplice, ma frutto di lunghe osservazioni ed elaborazioni scientifiche: bisognava innanzi tutto suscitare nei bambini gioia ed entusiasmo per il lavoro e avere la massima fiducia nell’interesse spontaneo del bambino, «nel suo impulso naturale ad agire e a conoscere»; e poi bisognava far stare assieme i bambini per fasce di età — dai 3 ai 6 e dai 6 ai 12 anni —, introdurre la prassi del pasto comune, del gioco del silenzio, arredare gli ambienti con mobilio proporzionato ai bambini e non funzionale alle esigenze degli adulti; abolire la cattedra dell’insegnante, i sillabari, i programmi e gli esami, i castighi, i giocattoli e le golosità; puntare sul lavoro individuale per ottenere spontaneamente dal bambino la ripetizione dell’esercizio, il controllo dell’errore, l’ordine nell’ambiente e le buone maniere nei contatti sociali, la pulizia accurata della persona e l’educazione dei sensi; esercitare la scrittura isolata dalla lettura, la scrittura precedente la lettura e le letture senza libri; favorire la libera scelta di ognuno e al tempo stesso perseguire la disciplina nella libera attività. Un bambino non più represso, dunque (ciò che meritò alla Montessori il plauso di Sigmund Freud), ma anche un insegnante nuovo, «il maestro passivo, che toglie l’ostacolo della propria autorità, affinché si faccia attivo il bambino, e che deve ispirarsi ai sentimenti di San Giovanni Battista: "Conviene ch’egli cresca e che io diminuisca"».

Era ben consapevole, Maria Montessori, che tutto questo «quando non sembrasse utopia, sarebbe apparso una esagerazione». Ma tirò dritto. Case dei Bambini e corsi di formazione per insegnanti montessoriani si moltiplicarono in tutto il mondo, in Germania, Olanda, Gran Bretagna, Francia, Romania, Scozia, Irlanda, Islanda, Stati Uniti, Canada, Messico e persino in India, in Giappone e in Nuova Zelanda. E arrivarono anche l’interesse e l’ammirazione, ricambiata, di Benito Mussolini, al quale si deve la trasformazione in ente morale dell’Opera Nazionale Montessori, di cui lo stesso duce fu presidente onorario e il filosofo Giovanni Gentile, allora ministro della Pubblica istruzione, presidente. Con Mussolini (che era stato maestro di scuola) e il fascismo, la Montessori — che era cattolica, progressista e liberale, ma non ligia alla Chiesa né ai movimenti di sinistra — ebbe un vero e proprio idillio che durò dieci anni, dal 1924 al 1934. Poi, scrive Giuliana Marazzi (Montessori e Mussolini: la collaborazione e la rottura, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», rivista dell’Università La Sapienza di Roma), «la politica scolastica e culturale del Regime cambiò, allontanandosi sempre di più dal progetto gentiliano, e il nuovo orientamento fu caratterizzato dalla limitazione delle libertà e delle autonomie, da un controllo più capillare e sistematico, fino all’introduzione del giuramento di fedeltà al regime imposto ai docenti universitari e la tessera obbligatoria per i dipendenti pubblici, compresi gli insegnanti». I quali ultimi, estremo paradosso per una pedagogia fondata sulla formazione rigorosa del personale docente e sulla libertà, dovevano essere scelti dal Regime e non più dall’Opera Montessori. In Germania andò anche peggio, i libri della Montessori finirono al rogo. La scienziata — apprezzata e difesa oltre che da Freud, anche da Guglielmo Marconi, Jean Piaget e Rabindranath Tagore —, abbandonò l’Italia, ma non il progetto a cui aveva dedicato la vita e che continuò a espandersi anche dopo la sua morte, avvenuta il 6 maggio 1952 a Noordwijk, in Olanda. Le sue parole, oggi, e specialmente in Italia, dovrebbero scuoterci: «Quando una società scialacquatrice ha necessità estrema di denaro, lo sottrae anche alle scuole. Questo è uno dei più iniqui delitti dell’umanità e il più assurdo dei suoi errori».
Carlo Vulpio