Luigi RIpamonti, la Lettura (Corriere della Sera) 30/12/2012, 30 dicembre 2012
HO VINTO, MA HO FALLITO
«Sono felice di invecchiare. Ho sempre temuto che con la vecchiaia sarebbero arrivati il deperimento fisico e quello intellettuale e invece ho scoperto che la mente può rimanere giovane, capace di creatività, innovazione e critica. E se la mente è giovane si rimane giovani. La morte si avvicina, certo, ma la morte è un dovere — biologico e antropologico — se non ci fosse, non ci sarebbero le nuove generazioni. Con la morte ho un buon rapporto. L’immortalità su questa Terra sarebbe una catastrofe».
Parola di Umberto Veronesi, monumento della medicina italiana, ma, aspetto di lui meno conosciuto, filosofo e profondo conoscitore della storia delle religioni. «Le dieci principali le conosco tutte molto bene, ho imparato il Corano quasi a memoria, ho letto i testi buddhisti e tutta la letteratura induista, ho approfondito confucianesimo, taoismo e anche religioni più antiche e abbandonate. Ovviamente sono partito dal cristianesimo, che appartiene alla nostra tradizione. Io vengo da una educazione profondamente religiosa. Per i primi dieci anni della mia vita ho recitato il rosario tutte le sere, ho fatto il chierichetto, sono andato a messa regolarmente. Ma quando ho voluto estendere le mie conoscenze e leggere accuratamente i libri sacri, ho cominciato a essere tormentato dai dubbi. Ho trovato i racconti dell’Antico Testamento brutali, violenti, pieni di tradimenti e violenze. L’insegnamento di Gesù mi ha sempre affascinato, invece, perché predica tolleranza, perdono e amore. Poi però nelle lettere di Paolo ho trovato asserzioni con le quali non ho potuto trovarmi d’accordo e quindi ho iniziato la mia ricerca studiando le altre confessioni. Alla fine del mio percorso ho concluso che non Dio ha creato l’uomo, ma l’uomo ha creato Dio, un trascendente cui riferirsi nei casi di difficoltà. Il risultato è che Dio è uscito lentamente dal mio orizzonte e ho sviluppato una filosofia che ha come base il rapporto fra gli uomini oppure fra gli uomini e la natura e che si basa su tre grandi principi: libertà, tolleranza, solidarietà».
Echi di Rivoluzione francese, professore.
«Quella è la partenza, ma ho aggiunto un quarto valore negli ultimi anni, ed è la pace universale, che è quasi implicita nei primi tre valori, ma che credo fermamente vada riaffermata costantemente come un assoluto».
Questo spiega la sua iniziativa «Science for Peace». Iniziativa ambiziosa, specie per un uomo già impegnato a sconfiggere il male fisico ogni giorno in ospedale.
«Il male è il male, in ogni sua espressione. Io ho passato la mia vita a combatterlo, specie dopo averlo vissuto personalmente in guerra. Dopo le atrocità incomprensibili che ho visto, ho deciso di fare il medico per specializzarmi in psichiatria, volevo capire dove si annidava nella mente umana tanta capacità di male gratuito, per contribuire a estirparlo. Ma frequentando i reparti di medicina scoprii un male ancora maggiore, che era il cancro, e decisi di battermi contro di esso. Nel dopoguerra l’Istituto dei tumori di Milano era un lazzaretto. Mi colpirono non solo il dolore, ma anche la rassegnazione e il fatalismo fra i malati e anche fra i medici. Questa malattia era una maledizione di cui non si vedeva la soluzione. Da allora tutta la mia vita è stata dedicata a questa lotta, nessuna domenica e nessun sabato esclusi... Un impegno gigantesco, senza requie, non volevo rassegnarmi».
E ha vinto.
«No, non ho vinto. Mi dicono spesso che sono un uomo di successo ma non è vero; ho fallito, perché avevo promesso a me stesso che sarei morto dopo aver visto il cancro sconfitto, e questo non succederà. Però posso dire che una battaglia importante l’ho vinta, ed è quella di convincere i miei colleghi a cambiare strategia contro i tumori».
Se si riferisce all’introduzione della quadrantectomia (l’asportazione solo di una parte del seno colpito dal cancro invece che di tutta la mammella) si tratta di una tecnica rivoluzionaria, ma riguarda solo un tipo di tumore.
«Nient’affatto. La sua importanza consiste invece nel cambiamento che ha impresso nella filosofia di trattamento di tutti i tumori. Prima della sua introduzione la regola, per tutti i tipi di cancro, era di praticare la massima asportazione possibile e somministrare la massima dose di radioterapia e di farmaci, quindi di applicare il "massimo trattamento tollerabile". Io invece mi convinsi che l’approccio dovesse rovesciarsi e che la regola dovesse diventare il "minimo trattamento efficace", cioè la minima asportazione e la minima dose di radioterapia e farmaci, per evitare che il paziente, anche quando aiutato a guarire, dovesse patire sofferenze o menomazioni a causa delle cure. Il successo della quadrantectomia aprì davvero una rivoluzione che poi si è estesa in tutti i settori dell’oncologia. Oggi si tende a evitare la deviazione dell’intestino nel tumore del colon, si cerca di conservare la voce nel tumore alla laringe, di non effettuare più l’asportazione degli arti e quindi di conservare l’integrità corporea. È cambiato il paradigma, la filosofia».
Perché proprio il tumore al seno per cominciare?
«La violenza, la brutalità sulle donne mi hanno sempre colpito in modo particolare, anche quando esercitata dalla medicina. Ho sempre avuto una spiccata sensibilità per l’universo femminile, forse perché ho perso mio padre da bambino e ho idealizzato mia madre, che mi ha fatto anche da padre e mi ha nutrito di tutti i valori che hanno formato la mia vita. Probabilmente è proprio per questo che ogni forma di violenza sulle donne è sempre stata per me ancora meno tollerabile. E la violazione del seno è particolarmente simbolica perché si tratta di una parte del corpo importantissima. Basta riflettere sul fatto che è l’organo dell’allattamento, quindi fondamentale per la continuità della specie, e in quest’ottica è anche un’importante attrattiva sessuale. È quindi importantissimo per l’identità, il benessere e anche l’integrità psicologica della donna. Riuscire a preservarlo il più possibile non solo ha rivoluzionato la filosofia della chirurgia oncologica in senso lato, ma ha anche incoraggiato le donne a fare diagnosi precoce attraverso la mammografia. Prima, con la prospettiva di perderlo per un tumore, le donne andavano convinte a esaminarsi il seno periodicamente con la mammografia, ora protestano se non hanno modo di farlo».
La passione per le donne ha alimentato parecchi pettegolezzi su di lei, che passa per un Don Giovanni.
«Per carità Don Giovanni mai, Casanova se proprio dev’essere. Don Giovanni umiliava le donne, Casanova cercava di amarle tutte, di dare a ciascuna qualcosa di sé. Comunque sono solo dicerie. È vero che ho avuto molte donne prima del matrimonio, alcune avventure dopo e un figlio fuori del matrimonio. Ma anche in questo caso ho avuto prova della grandezza delle donne, perché mia moglie ama questo mio figlio come gli altri avuti da lei, e ha buoni rapporti con sua madre. Le donne sono capaci di "amore insensato", di amare oltre ogni ragionevolezza, cosa che gli uomini raramente sanno fare».
Quindi il male è più maschile.
«Il male è folle ma anche banale, come diceva Hannah Arendt, ma non è genetico, come pensava Freud. Non è nel Dna dell’uomo».
Affermazione coraggiosa.
«Il Dna ci impartisce due comandi assoluti, intorno ai quali ruota tutta la nostra vita: il primo è l’istinto di sopravvivenza, che ci induce a fare qualsiasi cosa per sopravvivere, compreso mangiare anche gli animali; il secondo è procreare per dare continuità alla specie. E questo vale per noi come per qualsiasi essere vivente. Ma se il primo comando contiene un germe di violenza è altrettanto vero che l’imperativo di garantire sopravvivenza alla specie lo tempera e lo trasforma in un imperativo non solo a procreare ma anche a mantenere le condizioni perché i propri discendenti possano essere nella migliore situazione per vivere e per procreare a loro volta. È per questo che costruiamo villaggi, città e nazioni, che cerchiamo di progredire nel benessere. E questo compito, quello di garantire la sopravvivenza della specie, comprende anche quello di non uccidere, di non esercitare violenza. Il Dna quindi contiene in sé anche un messaggio di fraternità».
Dna anche come viatico per un’eternità laica?
«No, se si intende continuità attraverso il Dna in senso materialistico. È vero che qualcosa dei nostri geni rimarrà per sempre finché continueranno le generazioni, e questo è affascinante, ma dal punto di vista individuale è poco rilevante. Quello che veramente può rimanere di noi come persone dipende dalle nostre idee, dal contributo che il nostro pensiero può dare al mondo».
Prima la Rivoluzione francese, adesso Hegel?
«Piuttosto Socrate. Nel Fedone, ai suoi allievi che lo invitano a non bere la cicuta o a berla lentamente per procrastinare la morte, il filosofo oppone un rifiuto, spiegando che comunque la morte non impedirà alla sua anima di sopravvivere. E per Socrate — condannato per empietà, cioè con l’accusa di non credere negli dei — l’anima, termine che in greco viene reso in questo caso con psyché, cioè psiche, è rappresentata dalle sue idee, che sono immortali, e infatti sono arrivate sino a noi. Questa è l’immortalità per come la vedo io; quanto maggiore è il contributo di innovazione che portiamo con le nostre idee, tanto più il nostro pensiero sopravviverà».
Luigi Ripamonti