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 2012  dicembre 30 Domenica calendario

INSEGUENDO LA NATALITA’

Nel film del 1973 Soylent Green, di Richard Fleischer (2022: i sopravvissuti) si prefigura una New York sovrappopolata e iperinquinata, dove le masse vengono nutrite con un plancton di soia-lenticchie (ricavato, come scoprirà il detective Charlton Heston, dal trattamento di cadaveri) e incentivate all’eutanasia (come quella, struggente, di un Edward G. Robinson al suo ultimo ruolo).
Ispirato sia al romanzo Largo! Largo! del grande Harry Harrison (scomparso quest’anno), sia al famoso rapporto del Mit sui «limiti dello sviluppo» (uscito nel 1972 e commissionato dal Club di Roma di Aurelio Peccei, manager di Fiat e Olivetti), il film è uno dei primi richiami all’incidenza demografica sugli scenari presenti e incombenti, a dimostrazione di come la miglior fantascienza sia sempre sensibile a dati e problemi reali. Una sensibilità assente, al contrario, in tanti «analisti» carismatici come Serge Latouche, che nel suo ultimo libro sulla spremitura del pianeta (Limite, Bollati Boringhieri, pp. 113, 9) riesce a eludere totalmente — pur citando il rapporto del Mit — la «questione demografica». Con poche eccezioni — come i refrain di Giovanni Sartori —, nessuno allarga il campo visivo dalle «crisi» attuali, economiche, sociali e ambientali, all’impatto della popolazione mondiale: allargamento che invece aiuterebbe a decifrare le cause rimosse e profonde di tante emergenze, materiali e psicologiche.
Basterebbe, per aprire il grandangolo, scorrere i dati dell’ormai classica Storia minima della popolazione mondiale di Massimo Livi Bacci (Il Mulino), da cui emerge un costante trend ascendente, nonostante i contraccolpi di guerre e shock climatici o immunitari (come la Morte Nera medievale o le ecatombi degli indigeni americani a contatto con i colonizzatori europei): un milione di abitanti nel Paleolitico, 10 nel Neolitico, 100 nell’età del bronzo, 250 allo scoccare dell’era cristiana, 750 all’inizio della rivoluzione industriale, 2 miliardi alla fine della Prima guerra mondiale, più di 7 oggi, con proiezione credibile a 10 per la fine del secolo. In percentuale, un incremento annuo dello 0,1 per mille abitanti dal Paleolitico al Neolitico, dello 0,4 dal Neolitico all’età cristiana, dello 0,6 nei 17 secoli precedenti le macchine a vapore, del 6 per mille fino al 1950 e addirittura del 18 dal 1950 a oggi.
Per essere compresa, questa spinta va inquadrata in un’ottica biologico-evoluzionistica, tra limiti/vincoli intrinseci di dimensione biologica e tempi di riproduzione degli organismi (che spiegano perché gli Homo sapiens siano meno degli insetti, e gli insetti meno dei batteri) e condizionamenti ambientali quali appunto il clima, la coabitazione-competizione del nostro genoma con quello dei microbi, le risorse disponibili. Decisiva, in questa dialettica incessante tra biologia e ambiente, è la « risposta» scientifico-tecnologica e bio-medica. Lo vediamo bene, per esempio, nella madre di tutte le transizioni, quella Neolitica di 10 mila anni fa, quando un aumento di popolazione (e di densità) sollecita i cacciatori-raccoglitori ad affinare tecniche già conosciute per approdare all’agricoltura e all’allevamento, ampliando «artificialmente» il ventaglio alimentare e intensificando i raccolti con aratri e traino animale.

Ma lo vediamo bene anche oggi, in una fase che forse non è il semplice prolungamento della transizione industriale, ma un’ulteriore transizione in sé. Da un lato, è evidente come proprio la tecnoscienza e la medicina possano rispondere a crisi di produzione agro-alimentare (con gli Ogm), al bisogno di nuove soluzioni energetiche in rapporto al riscaldamento globale, (con tecnologie sempre più sofisticate) o alle nuove emergenze epidemiologiche (antibiotici di nuova generazione contro batteri più plastici e aggressivi). Dall’altro, i dati impressionanti non solo sulla crescita demografica, ma soprattutto sulla concentrazione urbana (arrivata nel 2010 al 50,5%, il famoso «sorpasso» sulle campagne), spiegano tante accelerazioni-metamorfosi come l’«informatizzazione» postindustriale. Per inciso, la densità urbana — insieme al mismatch, cioè alla «dissonanza» che si crea tra comportamenti adattativi acquisiti al tempo della caccia/raccolta e i contesti attuali — spiega problemi e patologie in modo più profondo, svelandone la genesi remota. Come un’alimentazione ipercalorica (necessaria in un contesto di fuga e predazione) diventa, in una società sazia e sedentaria, fonte potenziale di diabete/infarto, così un cervello «tarato» per interagire in comunità di 100-150 individui, gerarchiche ma molto solidali, ha difficoltà in folte comunità claustrofobiche e alienanti, all’origine sia di disagi lievi come l’impossibilità di gestire troppe amicizie su Facebook, sia di varie psicopatologie ansioso-depressive.
In questo «respiro», la risposta scientifico-tecnica cade però in una circolarità ambivalente: risolvendo «colli di bottiglia» della pressione demografica, getta nello stesso tempo (in un feedback o retroazione) le premesse per un’ulteriore crescita di popolazione (come nella rivoluzione industriale), dovendo poi risolvere altri «colli di bottiglia» che ha contribuito, con le migliori intenzioni, a creare. Caso da manuale — oltre all’emergenza climatica — l’allungamento delle aspettative di vita, che si sta traducendo in molte aree nel rilancio della natalità (Francia e Cina) per proteggere l’identità nazionale dai flussi migratori, pagare le pensioni e coprire costi sanitari di vecchiaie prolungate e spesso invalidanti.
Se è quindi fuori discussione la necessità di includere nella pianificazione del futuro la «questione demografica», bisogna dirsi, con brutale realismo, che ci sono poche vie di intervento, a volte — come dimostra Livi Bacci — controintuitive. Il controllo volontario delle nascite (che resta il timone operativo, ma deve scontrarsi con attriti ideologico-religiosi trasversali) può essere infatti perseguito, specie nei Paesi in via di sviluppo, soprattutto diminuendo la mortalità infantile, cioè spingendo a una riproduzione «di economia» anziché «di dispendio» (a non fare tanti figli per aumentarne la possibilità di sopravvivenza). Oppure, diffondendo istruzione e consapevolezza, più importanti della ricchezza (lo accertano molti dati) nell’esercizio di un contenimento demografico civilizzato (non più legato a pratiche come l’aborto selettivo sulle femmine). Anche se non bisogna mai dimenticare come l’«inerzia» ascendente del trend su cui si cerca di operare coincida con la spinta stessa del vivente, guidata da un determinismo che condiziona — come una forza tenace e invisibile, poco meno tirannica della gravità — ogni forma di «volontà» e di «scelta».
La partita è aperta, e il passaggio per il nuovo «collo di bottiglia» strettissimo, con la sola certezza che esitare aprirà scenari simili a quelli del romanzo di Harrison o del film di Fleischer.
Sandro Modeo