Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 29/12/2012, 29 dicembre 2012
LA CHIESA DEI PAPI DIPLOMATICI FRA OTTOCENTO E NOVECENTO
Nel corso di un intervento sui rapporti fra Stato e Chiesa, lei ha detto che, non a caso, gli ultimi papi hanno spesso una forte esperienza diplomatica alle spalle, riservandosi più avanti un approfondimento, se ce ne fosse stato il tempo. La questione non è stata più ripresa, ma mi è rimasta la curiosità.
Maurizio Bresciani
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Caro Bresciani, quando era ancora un semplice sacerdote, Pio IX fu per due anni, dal 1823 al 1825, membro di una delegazione apostolica in Cile, ma non ebbe mai, nei suoi rapporti con la società internazionale, l’abito e la mentalità del diplomatico. La sua maggiore preoccupazione, durante il papato, fu quella di arroccare la Chiesa contro le minacce della secolarizzazione e di rafforzare, anche con il dogma dell’infallibilità, i poteri del Pontefice. Quando gli succedette, Leone XIII aveva fatto una interessante esperienza diplomatica come nunzio a Bruxelles dal 1843 al 1845, negli anni in cui il nuovo regno, sorto dalla rivoluzione belga del 1830, stava definendo i suoi rapporti con il clero locale. Il successore di Leone, Pio X, non aveva fatto esperienze diplomatiche e s’impegnò soprattutto nella difesa della Chiesa contro il modernismo. Ma conviene ricordare che l’uomo pressoché universalmente designato alla cattedra romana, dopo la morte di Leone XIII, non era Giuseppe Sarto, Patriarca di Venezia. Era Mariano Rampolla del Tindaro, nunzio a Madrid dal 1882 e segretario di Stato dal 1887. Se entrò Papa in Conclave e ne uscì cardinale, come usa dire dei candidati troppo frettolosamente applauditi, la ragione fu il veto opposto dall’arcivescovo di Cracovia per ordine dell’imperatore Francesco Giuseppe.
Rampolla non piaceva a Vienna perché era considerato troppo amico della Francia e, soprattutto, avversario della Triplice Alleanza. Pio X accettò il papato piangendo ed ebbe il merito di sopprimere il diritto di veto che la tradizione riservava ai maggiori sovrani cattolici. Ma il suo papato, come quello di Pio IX, trattò la diplomazia come un’arte a cui ricorrere il meno possibile. Quando la Francia promulgò una legge per trasferire ad associazioni private la proprietà dei beni ecclesiastici, papa Sarto la respinse con una enciclica del 18 agosto 1906. E quando i suoi consiglieri osservarono che una tale pregiudiziale opposizione avrebbe lasciato l’arcivescovo di Parigi senza casa e denaro, Pio X rispose: «Si può sempre nominare arcivescovo un frate francescano, obbligato dalla sua regola a vivere di elemosina in assoluta povertà».
Il ritorno alla diplomazia avviene con i papati successivi. Benedetto XV aveva fatto una esperienza diplomatica a Madrid con Rampolla. Pio XI era stato nunzio a Varsavia. Pio XII era stato nunzio a Monaco e a Berlino, segretario di Stato, negoziatore del concordato con il Terzo Reich. Giovanni XXIII era stato visitatore apostolico a Sofia, delegato apostolico in Turchia e in Grecia. Paolo VI era stato dapprima sostituto del Segretario di Stato, poi pro-segretario. Credo che la presenza di tanti diplomatici al vertice della Chiesa fra l’Ottocento e il Novecento sia dovuta ai grandi mutamenti della situazione internazionale in quegli anni. Le rivoluzioni nazionali, la moltiplicazione degli Stati dopo le due grandi guerre mondiali, la nascita della Società delle nazioni e dell’Onu, la guerra fredda, la decolonizzazione e l’ascesa delle nazioni islamiche hanno persuaso la Chiesa che la sua missione spirituale non poteva prescindere dalla necessità di creare, con la diplomazia, le migliori condizioni possibili per il lavoro delle sue istituzioni. L’elezione di Wojtyla e Ratzinger, d’altro canto, sembrano suggerire che la Chiesa ha ormai, nel mondo, una presenza diplomaticamente consolidata e che il suo pontefice può essere scelto fra persone che hanno alle loro spalle soprattutto una forte esperienza pastorale o teologica.
Sergio Romano