JOHN BERGER E KATYA BERGER, la Repubblica 30/12/2012, 30 dicembre 2012
Raffaello fu uno dei tre grandi maestri dell’Alto Rinascimento. Tuttavia, messa a confronto con quella degli altri due – Michelangelo e Leonardo Da Vinci –, la sua opera è stranamente elusiva
Raffaello fu uno dei tre grandi maestri dell’Alto Rinascimento. Tuttavia, messa a confronto con quella degli altri due – Michelangelo e Leonardo Da Vinci –, la sua opera è stranamente elusiva. Gli esperti non riescono mai a decidere se la maggioranza dei suoi lavori sia di sua mano, di uno dei suoi assistenti, oppure dell’ampio “studio” di pittura che egli fondò per soddisfare le continue commesse che riceveva dal Vaticano. Questo studio era diverso da quello dei pittori che lo avevano preceduto. Non era una bottega artigiana dove il maestro è affiancato da qualche assistente. Somigliava piuttosto a una Hollywood per la produzione di dipinti, affreschi e cartoni per arazzi. Una Hollywood plastica. I suoi dipinti sono elusivi perché è impossibile riconoscere il suo “tocco”. Rivelano ben poco della propria fattura; sono semplicemente e incontestabilmente lì, con la loro limpida, inequivocabile atmosfera: un’atmosfera di ricchezza, grazia e gesti imperiosi. Si ha quasi la bizzarra impressione che siano venuti alla luce bell’e pronti. La loro inventiva e originalità è, per l’epoca, impressionante, ma riguarda la loro ideazione più che l’esecuzione. È come se Raffaello avesse concepito un’intera comitiva di modelli – di grazia, devozione, maternità, pietà, ardimento – e li conservasse al buio in qualche imprevedibile deposito o magazzino della mente e poi, allorché lo invitavano a dipingere un determinato soggetto, aprisse il deposito, ne tirasse fuori uno o due bell’e pronti e li deponesse, li fissasse sulla tela. Alcuni dei ritratti dipinti da Raffaello sono più caratterizzati. I suoi amici Baldassare Castiglione e Andrea Navagero sanno che la vita è crudele e lo guardano con tenerezza. In questi dipinti l’enigma del modello, lo sforzo di concentrazione da entrambe le parti, l’ammissione che la vita è crudele, la soddisfazione di un riconoscimento improvviso: tutto questo è dichiarato. Sono tra le immagini d’amicizia più sincere che esistano in pittura. Non dimentichiamo però che bisogna essere in due per fare un grande ritratto. È indispensabile una collaborazione stretta tra modello e artista mentre lottano per avvicinarsi l’uno all’altro. Nei dipinti tematici di Raffaello non c’è segno di esitazione, lotta o difficoltà di avvicinamento. I modelli sono proprio lì. Si tratta solo di riconoscerli. Il tempo che li circonda è senza tempo. Entriamo nella loro “eternità”, per tutto il tempo che vogliamo. La medesima atemporalità è inscritta nel corpo delle figure dipinte. Osservate i loro lineamenti, le mani, i corpi: qualunque età abbiano, in loro non c’è traccia del passare degli anni. Sono senza età. Esenti dall’accanimento del tempo, lo sono anche dalla forza di gravità. Sono senza peso. Le pieghe delle vesti, dipinte con meticolosità, cadono come dovrebbero; il ginocchio piegato di una figura genuflessa tocca il suolo come dovrebbe; saltando, un piede atterra proprio nel punto giusto. Eppure sono senza peso, perché non c’è compressione. Una Madonna in un campo è simile a una Madonna su una nuvola: sono entrambe leggere come palloncini a elio. Non scalfite dal trascorrere del tempo, non appesantite da nulla, avvolte in abiti sontuosi e dai colori vivaci, fanno pensare a indossatrici in passerella. In questo il contrasto tra Raffaello e Mantegna, suo immediato predecessore, è davvero impressionante, perché quest’ultimo insisteva sulla forza di gravità (il Cristo morto giace piatto e greve sul terreno) e su quel che il tempo fa ai volti e a ogni cosa viva. Nelle opere sacre di Raffaello appena descritte c’è un’eccezione occasionale, ma ricorrente: a volte ci sono dettagli ravvicinati tratti dalla natura – piante, un ramo d’albero, del muschio su una roccia – in cui i segni dello sviluppo organico, della crescita e decomposizione, sono stati osservati e inclusi. Guardate, per esempio, alle tante versioni del suo San Giovanni nel deserto. L’influenza di Dürer – con il quale Raffaello era in corrispondenza – è palese in questi dettagli. Essi, tuttavia, suggeriscono anche che l’atemporalità delle figure dipinte non è qualcosa di intrinseco al modo in cui Raffaello e la sua bottega osservano tutto ciò che esiste, bensì una scelta ideologica che determina la maniera in cui presentano i loro protagonisti, le loro figure leggendarie, le loro star. Il confronto forzato tra l’elaborato studio romano di Raffaello e Hollywood ci permette ora di venire a patti con qualcos’altro: la priorità di entrambe le “imprese” è produrre e offrire Glamour, che nell’Italia del sedicesimo secolo si chiamava Grazia. Snelli, per sempre giovani, con un sorriso invitante per ogni occasione. L’assistente principale di Raffaello, e il suo preferito, era Giulio Romano. Dopo la morte precoce del maestro all’età di trentasette anni – la produttività dell’impresa è tale che si tende a dimenticare quanto sia stata breve la sua vita – Giulio Romano continuò a produrre una pletora di opere inconfondibilmente sue, tra cui gli affreschi di Palazzo Te a Mantova. Per temperamento Romano era assai diverso dal suo maestro. Raffaello era un uomo ambizioso, ma schivo. Si considerava un agente. Un agente del Vaticano e della fede cristiana. Un agente di genio. Romano, invece, era uno scaltro promotore di se stesso. Con pochi tocchi trasformò la figura dipinta da Raffaello nel prototipo del kitsch del ventesimo secolo, nella modella dell’industria della moda. O, come Damien Hirst, produsse all’interno del Palazzo di Mantova una sensazionalistica installazione-horror per assicurarsi di essere ricordato in proprio. A questo punto è necessario chiedersi in che misura il metodo produttivo di Raffaello e della sua impresa incidesse sul contenuto delle immagini prodotte, quanto influenzasse quel che avevano da dire sulla condizione umana. Le figure, le Madonne, i martiri, i santi, i testimoni sono lì davanti a noi, e ci interpellano mostrandoci qualcosa di esemplare. Rappresentano l’Essere. Ci ricordano il nostro Essere. Tuttavia, poiché gli è stata risparmiata la prova del tempo, poiché esistono atemporalmente, non c’è spazio e neppure tempo per il concetto e l’energia del Divenire. E così escludono l’esperienza della durata, del desiderio, della resistenza. Negano che nella condizione umana il Divenire sia la parte fondamentale dell’Essere. Rappresentano una ricompensa data, ma non sanno nulla della speranza. Potrebbe essere la ragione profonda per cui, nei secoli che seguirono il sacco di Roma del 1527, via via che l’Europa andava politicizzandosi, l’opera di Raffaello fu considerata sempre meno rilevante. Aveva il suo posto nella storia dell’arte e alcuni dei suoi dipinti divennero immagini- reliquiario comuni e popolari per la Chiesa e per i credenti, ma cessò di essere di stimolo o ispirazione per chi era interessato al futuro. Eppure adesso, secondo il catalogo dell’importante mostra in corso al Louvre, l’interesse per Raffaello e la sua impresa è rinato: “è probabilmente più forte oggi di quanto sia stato negli ultimi due secoli”. La ragione è chiara. L’Europa è sempre più disperatamente spoliticizzata. Un’era politica è finita. Quella che la sostituirà è ancora nascosta o rivoluzionaria. E così la falsa promessa di una “ricompensa data da qualche altra parte” riacquista il suo fascino spurio agli occhi di chi non ha più i mezzi per resistere. (Traduzione di Maria Nadotti)