Antonio Gnoli, la Repubblica 30/12/2012, 30 dicembre 2012
Alla quattordicesima sigaretta, numero verificato sommariamente nel posacenere accanto alla poltrona, Andrea Camilleri tira un sospiro
Alla quattordicesima sigaretta, numero verificato sommariamente nel posacenere accanto alla poltrona, Andrea Camilleri tira un sospiro. Non è il segnale di un congedo. Ma sono trascorse due ore durante le quali lo scrittore ha snodato e riavvolto la sua vita. Ama parlare e lo fa con affabulazione e quel tanto di civetteria di chi ha una naturale consuetudine con il teatro. Camilleri, e in questo è davvero poco siciliano, è un estroflesso. Mi fa pensare a uno scrittore acustico, le cui sonorità, rumori, voci riempiono la sua produzione fluviale. Alla quattordicesima sigaretta, dicevo, quest’uomo che sta per entrare nell’ottantottesimo anno, sospira. Ed è un suono lungo e lieve. Come il fiato di un animale di bosco che va a cadere su una frase che regge tutta la conversazione: «Delle cose che ho fatto di nessuna mi pento. E se le turbolenze si sono a volte scatenate nella mia vita ho imparato, come Conrad, a non considerarle una minaccia ma la prova che possiamo uscirne salvi». Ho appreso da qualche parte che Joseph Conrad fu tra le sue prime letture. «Beh, sì. Insieme a Melville e agli scrittori russi. Ero un bambino fragile che si ammalava di frequente, passando delle meravigliose giornate a letto. La televisione non era ancora stata inventata. La radio era intrasportabile. Esauriti i fumetti, soprattutto L’Avventuroso e L’Audace non restava che chiedere a mio padre di leggere i suoi libri. Mi imbattei ne La follia di Almayer di Conrad. E poi in Moby Dick, di cui capii solo l’avventura, ma non quello che la balena stava a significare. Nella biblioteca di papà, che aveva un fiuto per le buone letture, colsi i primi Simenon, quando ancora si firmava Georges Sim». Suo padre cosa faceva? «Era ispettore delle compagnie portuali della Sicilia del Sud. Un posto rispettabile che si era trovato dopo il fallimento della miniera di zolfo del nonno, dove lui lavorava. Del resto il matrimonio tra mio padre e mia madre era stato un “matrimonio di zolfo”». Ossia? «Quelle unioni che avvenivano tra proprietari di solfatare. Era una specie di dote che veniva assegnata in cantare di zolfo. Una “cantara” era poco più di un quintale. Ho un documento in cui c’è scritto che il figlio di Stefano Pirandello, Luigi, sposerà la figlia di Giuseppe Portolano. Quei matrimoni erano il solo modo che i siciliani facoltosi immaginarono per contrastare la forza delle compagnie minerarie». Dove avveniva tutto questo? «Nella zona di Porto Empedocle dove sono nato. C’era un grande porto, poi decaduto e un vasto retroterra contadino. I miei nonni avevano una bella proprietà di terreno a mandorle e frumento. Ci andavo finita la scuola. E mia nonna Elvira, essendo io figlio unico, divenne la mia compagna di giochi. Parlava con gli oggetti, inventava le parole e una volta mi presentò a un grillo con nome e cognome. Fu lei a raccontarmi le avventure di Alice nel paese delle meraviglie. Aprì la mia fantasia. Era un personaggio, come del resto suo fratello medico: lo zio Alfredo, la pecora nera della famiglia». Di cosa era accusato lo zio Alfredo? «Di essere un antifascista. Eravamo tutti fascisti. Mio padre aveva fatto anche la Marcia su Roma. Io ero un giovane balilla. Lui niente. Lui era lo stravagante. Pensi che in certe giornate si sdraiava in perizoma sul terrazzo di casa, dopo essersi spalmato di miele le giunture. Si faceva pungere dalle api dicendo che faceva bene alle articolazioni. Non credeva nella medicina tradizionale. Scoprii nella sua biblioteca un manuale di Yoga, che però non lessi». Diceva di essere stato fascista. «Come tanti. Smisi di esserlo nel 1942 in seguito a due fatti scatenanti. Il primo fu un libro che cambiò la mia vita: La condizione umana di André Malraux. Mi turbò profondamente. Rivelandomi, tra l’altro, che i comunisti non erano come ce li avevano raccontati a casa». Il secondo? «Partecipai a Firenze alla riunione internazionale della gioventù fascista. C’erano giovani come Giorgio Strehler e Ruggero Jacobbi. Parlò il capo della “Hitler-Jugend”, Baldur von Schirach, e spiegò cosa era per lui l’Europa: cioè un enorme caserma nazista abitata da un pensiero unico. Non ci sarebbe stato altro. Tornai sconvolto e abbandonai il fascismo ». E cosa accadde a quel punto? «Molte cose successero. Diventai comunista. Finì la guerra. E cominciai a mandare in giro i primi racconti e alcune poesie. Con un certo successo. Ungaretti mi incluse in un’antologia di poeti scelti da lui. Era il 1947 e volevo andarmene dalla Sicilia. Nel 1949 vinsi la borsa di studio per l’Accademia nazionale d’Arte drammatica. Venni a Roma e cominciai a studiare regia con Orazio Costa». Che città trovò? «Bellissima. Potevi avvicinare qualsiasi persona e questa ti dava retta. Cominciai a frequentare il giro degli artisti. Si incontravano da Canova, allora il Luxor: Ciccio Trombadori, Giulio Turcato, Mario Mafai, a volte Alberto Savinio, al cui genio ci si poteva solo inginocchiare. Sì, Roma era straordinaria. Solare. Unica. In alcuni punti, per esempio dove io abitavo, in piazza della Giovane Italia, c’erano ancora le mandrie che risalivano». Era un mondo la cui sparizione Pasolini avrebbe rimpianto. «Pasolini era un antropologo delle borgate. Con lui, che conobbi a fondo, mi lasciai male». Perché? «Pretendeva di applicare i suoi principi cinema- tografici al teatro. Io, che allora lavoravo alla Rai, gli dissi: tu vuoi fare recitare sul palcoscenico gente che non l’ha mai fatto. Ma a teatro non funziona. Discutemmo ferocemente a casa di Laura Betti. Poi ci lasciammo con l’idea di riprendere la discussione. Invece è morto nel modo che sappiamo». Che idea si è fatto della sua morte? «L’hanno ammazzato per bullaggine. Non credo al delitto politico. Personaggi come lui – pieni di irruenza anche se non sempre erano nel giusto – oggi mancano. Sento perfino la mancanza di uno come Moravia: noioso, ma lucido. Ma chi mi manca veramente è la Betti». Cosa aveva in più? «Era una donna straordinaria. Meravigliosa. Un giorno a Torino, uscendo da un ristorante, vediamo una grande scritta dentro l’androne di un palazzo: “Non abusate dei luoghi comuni”. Porca miseria dico io: che portiere intelligente! Entriamo e Laura gli grida: siamo perfettamente d’accordo con lei. E lui serio: lasciano sempre carrozzine e biciclette. Ci deluse». Cos’è il fraintendimento? «È ciò che manda all’aria un sacco di relazioni umane. Ma senza il fraintendimento non ci sarebbe l’interpretazione. La lingua perderebbe una risorsa fondamentale. E di conseguenza anche i romanzi ne risentirebbero». So che il suo primo romanzo DISEGNO DI RICCARDO VECCHIO ha avuto molti rifiuti. «Furono dieci gli editori che dissero no. Alla fine ne feci una riduzione per uno sceneggiato televisivo e a quel punto un editore di libri a pagamento lo pubblicò in cambio di una pubblicità sui titoli di coda. Fu come togliere un tappo. Scrissi immediatamente il secondo romanzo che inviai a Garzanti: Un filo di fumo. E poi un saggio, La strage dimenticata che Elvira Sellerio pubblicò. Da allora passarono 8 anni senza che io scrivessi più nulla». Cosa la frenava? «Il teatro. Mi assorbiva e mi condizionava. Poi una sera, alla fine di uno spettacolo su Majakovskij, Elvira, di cui ero diventato molto amico, venne a salutarmi e mi disse: quando mi dai il prossimo romanzo? Aveva intuito che una fase della mia vita si era conclusa». Come fu il rapporto con la Sellerio? «Fu una donna straordinaria, dotata di un’intelligenza calda. Negli ultimi anni Elvira, che era stata molto bella, cominciò a sentirsi giù fisicamente. Non le piaceva più apparire. E ora che ci penso anche Sciascia negli ultimi tempi tese a scomparire. In genere, la vecchiaia e la malattia producono questo effetto. Che in noi siciliani si amplifica. Somigliamo ai gatti che si vanno a nascondere prima di morire». Lei come vive questa stagione della sua vita? «Con la consapevolezza che in ognuno di noi avvengono mutamenti legati all’età. Non capisco certi miei coetanei che si deprimono perché non possono andare più a donne o si devono infilare la dentiera. Io dico spesso che quando veniamo al mondo ci hanno dato un ticket nel quale è compreso tutto: la giovinezza, la felicità, la speranza, la malattia, la morte. È inutile farsi venire la depressione. C’è un tempo fisiologico che ci dice cosa fare». A volte facciamo di tutto per non ascoltarlo. «Lo so benissimo. E si spaventerebbe se le dicessi che c’è stato un tempo in cui ogni mattina bevevo una bottiglia di whisky. Lo reggevo benissimo e questo fu il male. Poi, un giorno ero a Vienna con mia moglie e una delle tre figlie. Avvertii un peso spaventoso sul cervello e cominciai a farfugliare parole incomprensibili. In quel momento il sangue esplose dal naso con violenza inaudita ». Era un ictus? «Sì, per fortuna si spezzò senza arrivare al cervello. Nella clinica in cui fui ricoverato il dottore – che aveva un cognome inquietante, si chiamava Sodoma – lasciò che il sangue defluisse per alcune ore. E mi salvai. La mia paura non fu tanto quella di morire ma di restare nell’impossibilità di pronunciare una frase di senso comune. Capii che il bere era stata la causa. Tornai a casa. Presi una bottiglia di whisky e la misi sulla scrivania. Duellai per una settimana. Alla fine dissi a mia moglie: prendila e offrila agli amici. Così smisi di bere». Ma vedo che non ha smesso di fumare. «La sigaretta mi piace. La lascio a metà e non l’aspiro. Anche il medico che mi ha visitato tre mesi fa si è meravigliato: le vene sono sgombre, il cuore funziona alla perfezione. Se smetto di fumare muoio». E a tavola? «Mangiare mi piaceva. Devo controllarmi. La pasta, i fritti, gli insaccati, li faccio mangiare a Montalbano. Mi fa rabbia! A volte mi viene la tentazione di farlo ammalare». È così forte il coinvolgimento? «È una nostra proiezione». Quanti romanzi ha scritto su Montalbano? «Mi pare venti, più quattro libri di racconti». Se vi aggiunge il resto ha una produzione impressionante. «Non ho “negri” come qualcuno insinua. Lo giuro». Come fa? «Penso a due o tre romanzi contemporaneamente. Poi, come di incanto, una di queste storie prende il sopravvento. E perché questo accada occorre che la forma e il tempo narrativo siano in me evidenti. Mi alzo molto presto, mi faccio la barba, mi vesto perché detesto la trasandatezza, vado al computer e dalle sei e mezza fino alle dieci scrivo». Scrive molto. Legge altrettanto? «Meno. Purtroppo dall’occhio sinistro non vedo più e l’altro è affetto da un glaucoma». Le provoca ansia? «Ansia no. Impaccio sì. Pazienza». Grazie ai libri è diventato ricco. «Non me l’aspettavo. Immaginavo una vecchiaia dignitosa da pensionato Rai. E invece questa grande ricchezza mi ha dato il gusto di poter donare molte cose. Però il tenore di vita mio e di mia moglie è rimasto quello che avevamo prima». Come vive questa crisi che attanaglia il paese? «Con mia moglie ci diciamo spesso una cosa. Tutti i soldi che abbiamo guadagnato si possono perdere. Ma siamo in un’età in cui non ci importa più niente. Con tutti i problemi che ti pone, la vecchiaia ha anche qualche piccolo vantaggio ». È in arrivo a gennaio il suo nuovo romanzo: Tuttomio, una storia di amore e di perdizione. «Una storia decisamente sgradevole. In passato mi hanno accusato di essere buonista. In realtà mi piace sperimentare il buono e il cattivo. Qui entro nel mondo femminile». Da siciliano? «La cosa più precisa di noi uomini siciliani la disse Verga e poi la riprese Brancati. Ci definì degli ingravida balconi».