Leonetta Bentivoglio, la Repubblica 30/12/2012, 30 dicembre 2012
LEONETTA BENTIVOGLIO
ROMA
Ci sono territori espressivi che plasmano una vita, campi d’indagine vissuti come inesauribili percorsi. Il teatro d’opera, per il regista Daniele Abbado, rappresenta molto più che un “semplice” mestiere. Imbarcarsi in questo mondo, per l’affermatissimo Daniele (quest’anno ha meritato l’Oscar della lirica per la categoria registi), significa reinventare la tradizione declinandola al presente, guidare il pubblico ad approfondirne la scoperta e proiettare, nella concretezza dell’immagine scenica, il racconto musicale di giganti quali Mozart e Verdi. «Sono un guardiano del museo», afferma ridendo, «che si misura col repertorio in maniera non museale. L’opera non ha nulla di statico e antiquato. Piuttosto è viva e dinamica, sempre di più. Con la loro voglia di sperimentare e i loro interessi culturali, i cantanti delle ultime generazioni stanno contribuendo a tale trasformazione. I capolavori operistici non sono più intoccabili, e il nuovo approccio alla lettura dei classici va di pari passo con l’importanza assunta dal teatro, uno dei pochi luoghi in cui è ancora possibile esercitare l’immaginazione
».
La musica, per Daniele, che è figlio del mitico direttore d’orchestra Claudio Abbado, costituisce un clima originario assimilato in famiglia al massimo livello, mentre il teatro è stato un’adesione e una fascinazione che ha nutrito il suo fantasticare fin dall’adolescenza: «Sono nato a Milano nel ’58, ed ero un ragazzo quando ho assistito agli spettacoli di Strehler, Eduardo De Filippo e Ronconi. Ricordo ancora l’Orlando
Furioso
ronconiano e il
Sogno di una notte di mezza estatemesso
in scena da Peter Brook come rivelazioni di un modo libero, aperto ed emozionante di fare teatro». Queste illuminazioni, coltivate nello studio e nell’esperienza, hanno fatto di Daniele il regista italiano di lirica più internazionale e attivo della sua generazione.
Con quel cognome ingombrante, dovuto al padre famosissimo, il rischio era l’eterna soggezione, l’“essere figlio di”, la mancanza di autonomia. Ma lui ce l’ha fatta, affrancandosi dall’impegnativa leggenda paterna. «Ho provato sempre a mettere da parte, nella mia testa, quel che implica l’etichetta “Abbado”, più scomoda che facilitante», riferisce seduto in un caffè romano, con la bella faccia dai lineamenti scolpiti così somigliante a quella del padre da giovane. «Ho cercato la mia strada senza mai pensare a Claudio, ma rendendomi conto di ciò che era ed è, e di quanto teatro musicale di qualità elevata ho potuto godere grazie a lui, negli anni in cui dirigeva la Scala». Mai che Daniele dica: «Mio padre». Lo chiama sempre e solo per nome: Claudio. «Mi viene spontaneo farlo, e anche per mia sorella Alessandra è così. Un mio maestro di scuola, un vecchio fascista, mi sgridava per questo: gli parevo irrispettoso. Ma per me è naturale. Forse perché con Claudio ho un rapporto da fratello e amico, molto paritario. Si parla di tutto: musica, figli, mare… Intervenne su di me solo riguardo allo studio, convincendomi a laurearmi in filosofia, mentre io m’ero diplomato alla scuola d’Arte Drammatica del Piccolo di Milano come regista».
Sua madre, Giovanna Cavazzoni, era stata cantante (oggi è la presidente di Vidas, l’associazione di volontari che si occupa di malati terminali). Durante l’infanzia di Daniele «Claudio insegnava al conservatorio di Parma, facendo il pendolare con Milano». Aveva undici anni quando i genitori si separarono, e a sedici si lanciò nel vivo del teatro come macchinista al Festival di Edimburgo, «dove ho capito che mi trovavo esattamente nel posto giusto per me». Con un gruppo di studenti del Piccolo, a Milano, il giovanissimo Abbado forma una compagnia, per poi fondare un teatro, l’Arsenale, dove lavora «puntando allo sviluppo delle relazioni tra i diversi linguaggi del teatro, incluso l’utilizzo di tecnologie multimediali». A fine anni Ottanta firma le prime regie, e risalgono
all’inizio dei Novanta alcune sue collaborazioni con Moni Ovadia. Accanto a perlustrazioni sperimentali del teatro di parola (memorabile la sua lettura asciutta e crudele di
4.48 Psychosis
di Sarah Kane, interpretata dalla bravissima attrice Giovanna Bozzolo, che per inciso è sua moglie e la madre dei suoi due figli), irrompe la passione per la lirica, in un moltiplicarsi di produzioni di opere di Rossini, Donizetti, Verdi, Wagner… Il teatro di Mozart sembra all’apice dei suoi interessi, con un
Flauto Magico
diretto musicalmente dal padre (Reggio Emilia 2005, Festival di Edimburgo 2006) e con una trilogia Mozart- Da Ponte andata in scena a Verona e a Reggio Emilia (2006). Qui i tre titoli mozartiani (
Le Nozze di Figaro, Don Giovanni
e
Così fan tutte)
sono concepiti come un unico spettacolo rappresentato in tre sere consecutive, con una semplificazione di strumenti e una chiarezza di espressione che equivalgono
alla cifra dominante del regista Abbado. In un fertile innesto tra il vecchio e il nuovo, sono numerose, nel suo catalogo, sia le messe in scene di autori del Novecento (Berg, Weill, Stravinskij, Britten, Dallapiccola), sia le collaborazioni con musicisti contemporanei (Berio, Battistelli, Henze, Vacchi). Lo stile si fa preciso, nitido, eloquente e moderno senza provocazioni.
Un altro aspetto importante del lavoro di Daniele è l’attività organizzativa. Uomo “puro” e tenace, la compie con estro, coerenza e acuta comprensione del teatro internazionale. Con queste doti ha diretto per dieci anni la Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, e i tre teatri della città, grazie alla sua cura artistica, sono diventati un modello europeo. Ora ha appena concluso il mandato rassegnando le dimissioni dopo un lungo braccio di ferro con l’amministrazione cittadina, e nonostante gli eccellenti risultati raggiunti: «I bilanci sono in ordine, e il consenso non è mai stato alto come nell’ultimo decennio». All’origine della crisi dei suoi rapporti col Comune, sostiene, c’è stata «l’indipendenza della linea culturale che ha animato la Fondazione, cioè il modo rigoroso con cui il teatro, in questi anni, ha interpretato il rapporto tra sfera culturale e ambito politico ». Vuol dire di aver pagato l’assenza di condizionamenti politici? «Certo. Come dice Gustavo Zagrebelsky, siamo nell’epoca della compiacenza. Il dilagare di quest’atteggiamento non ha toccato la Fondazione I Teatri, che è stata un ottimo modello di progettualità e gestione».
L’attivissimo Daniele tuttavia non si scoraggia: come regista galoppa forte, e per di più «accade spesso che i miei lavori del passato vengano capiti e apprezzati maggiormente in anni successivi, acquisendo longevità». È un criterio economico e profetico, che può salvare la vita difficile della lirica: «Quest’anno sarà ripresa in vari teatri la mia regia di
The Rape of Lucrecia
di Britten, creata quindici anni fa e già vista molto. Ho portato nello scorso luglio la mia
Toscain
Giappone, nata nel ’95 a Torino, e disegnata tutta in un unico spazio. E la mia
Butterfly
del 2008 andrà a Bari, Venezia e Pechino».
Il suo Puccini è elegante, “raffreddato”, svuotato dal mélo: «È il compositore a esigerlo. Togliendogli descrittività, tutto diventa più drammatico». E in
Rigoletto,
presentato alla Fenice
nel 2010 e rimontato sia nel 2011 sia nell’ottobre scorso, ha reinterpretato la tragica vicenda del buffone della corte di Mantova «in un’ottica espressionista e brechtiana, proprio nell’accezione di straniamento richiesta da Brecht». Verdi, secondo Abbado, è un incontro imprescindibile per ogni regista: «Ti ci devi confrontare ed è sempre un buon padre, perché ti dà materiali sui quali lui aveva già pensato in termini scenici. Le sue opere ci stanno davanti nella pienezza dell’oggi: dobbiamo capirle nel presente, perché è al presente che ci parla Verdi. Il che non significa portare in scena i segni delle odierne sciatterie. Serve un lavoro di elaborazione della drammaturgia e va trovata una chiave prossima a noi, come nel caso del
Rigoletto
espressionista».
Un suo nuovo
Don Carlo
ha debuttato all’Opera di Vienna nel giugno scorso, e nel 2013 firmerà la regia del
Nabucco
alla Scala, coprodotto con Londra, Houston e Barcellona. Debutto primo febbraio, con Nicola Luisotti sul podio. Per questo titolo, che unisce fonti bibliche e Risorgimento, progetta una regia essenziale, comunicativa e al solito non datata: «Penso a un cimitero reinventato e collocato in un deserto. In una guerra spesso i vincitori profanano la memoria dei morti e degli sconfitti. È avvenuto in Iran e in Afghanistan. La profanazione tocca il dominio del simbolico legato al culto.
Nabucco
tratta della liberazione di un popolo oppresso e ci promette riscatto e dignità. Sarebbe ridicolo inserire in questo grandioso e atemporale messaggio le barbe finte di finti assiri. Bisogna mettere l’immaginario dello spettatore in condizione di spaziare e fargli rintracciare nessi riconoscibili».