Sergio Romano, Corriere della Sera 30/12/2012, 30 dicembre 2012
Ho cercato di documentarmi sull’azione diplomatica della Santa Sede durante la guerra del Vietnam, ma poco sono riuscito a ricavare
Ho cercato di documentarmi sull’azione diplomatica della Santa Sede durante la guerra del Vietnam, ma poco sono riuscito a ricavare. È vero che l’arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro fu destituito da Paolo VI perché, nell’omelia del 1° gennaio 1968, il cardinale criticò i bombardamenti americani in Vietnam, interrompendo di fatto ogni embrionale azione della nunziatura vaticana? Andrea Sillioni a.sillioni@yahoo.it Caro Sillioni, I l «caso Lercaro» è descritto in un libro apparso nel 2004 (Araldo del Vangelo, a cura di Nicla Buonasorte, ed. Il Mulino) e recensito da Antonio Carioti sul Corriere del 28 ottobre di quell’anno. Dagli studi di Alberto Mellini e Giuseppe Battelli appare che la destituzione sarebbe stata provocata dalle parole con cui Lercaro condannò i bombardamenti americani sul Vietnam («contrari ai Vangeli») in una omelia per la pace pronunciata nella cattedrale di Bologna durante i riti del Capodanno 1968. Fu quella la ragione per cui il 27 gennaio un legato del Papa, monsignor Luigi Civardi, annunciò a Lercaro che avrebbe dovuto lasciare la guida della diocesi. Paolo VI stava lavorando da tempo alla ricerca di una soluzione negoziata del conflitto vietnamita e non poteva permettere che il suo tentativo venisse pregiudicato dalle infiammate dichiarazioni antiamericane di un principe della Chiesa. Il prologo e l’antefatto di quella vicenda sono nel «Diario Vietnamita» di un diplomatico italiano, Giovanni D’Orlandi, ambasciatore a Saigon dal 1962 al 1967. Il libro, pubblicato nel 2006 da 30 Giorni, a cura di Roberto Rotondo con una prefazione di Giulio Andreotti, descrive la caotica situazione di un Paese in cui la guerra non è soltanto tra il Sud, alleato degli americani, e il Nord comunista. Si combatte tra politici ambiziosi e corrotti al vertice dello Stato meridionale, tra gruppi religiosi, tra servizi segreti, tra le forze di polizia e le formazioni clandestine dei vietcong. D’Orlandi è un uomo malato, fisicamente fragile, profondamente religioso, fortemente motivato dal desiderio di trovare una formula diplomatica che permetta l’interruzione dei bombardamenti e la tregua. A Roma è sostenuto da Amintore Fanfani, allora ministro degli Esteri. A Saigon ha due «complici»: Henry Cabot-Lodge, ambasciatore degli Stati Uniti, e Janusz Lewandowsky, delegato polacco della Commissione internazionale di controllo, il solo che, nella sua veste di rappresentante di un regime comunista, abbia contatti con il regime del Nord. In questa situazione confusa, punteggiata da continui attentati terroristici, appare improvvisamente, nel settembre 1966, monsignor Sergio Pignedoli, delegato apostolico in Canada e incaricato di una missione apparentemente pastorale, ma in realtà politica e diplomatica. Deve convincere i cattolici vietnamiti, spesso fieramente anticomunisti, ad adottare un atteggiamento più neutrale e conciliante. Deve tutelare per quanto possibile i 500.000 cattolici del Nord Vietnam e accertare se esistano le condizioni per un negoziato. Vorrebbe visitare Hanoi, la capitale del Nord, e D’Orlandi gli suggerisce di parlarne a Lewandowsky. I rapporti della Santa Sede con il governo di Varsavia non sono buoni, ma la pace merita un sacrificio e Pignedoli ha una lunga conversazione con il delegato polacco. Niente da fare: il governo del Nord non è interessato a parlare con il rappresentante papale e la missione si conclude senza alcun risultato. Paolo VI, tuttavia, non rinuncerà al suo progetto e cercherà più volte di convincere e coinvolgere il presidente Johnson. Vi saranno negoziati a Parigi nel maggio 1968, ma la fine del conflitto dovrà attendere l’elezione di Richard Nixon alla Casa Bianca, la diplomazia di Henry Kissinger e soprattutto il ritiro delle truppe americane dal Vietnam.