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 2012  dicembre 30 Domenica calendario

Il premio, ah, quel premio. Una vecchietta palermitana dalle idee confuse lo bloccò sdegnata davanti all’Albero Falcone: «Ma, dutturi Grasso, picchì ci dette ’stu premiu a Berlusconi?»

Il premio, ah, quel premio. Una vecchietta palermitana dalle idee confuse lo bloccò sdegnata davanti all’Albero Falcone: «Ma, dutturi Grasso, picchì ci dette ’stu premiu a Berlusconi?». Ora Pietro Grasso, già procuratore nazionale antimafia e futuribile ministro della Giustizia del Pd, sostiene in tv che non andò proprio così: che quei discoli della Zanzara, intervistandolo, gli misero un po’ in bocca la frase. Tuttavia, in questo clima selvaggio e ingenuamente schematico di «amici di Caselli» contro «amici di Violante», che poi si traduce in «amici di Ingroia» contro «amici di Grasso», e insomma in due idee concorrenziali di come condurre la lotta ai padrini, tutto fa brodo, anche la storia del (presunto?) premio antimafia da attribuire (nientemeno che) al Cavaliere. È un fiume carsico questa faccenda dell’antimafia buona e dell’antimafia cattiva, dai tempi di Falcone contro Cordova, Falcone contro Meli, i colleghi di Magistratura democratica contro Falcone, Falcone troppo vicino a Martelli, Orlando contro Falcone e le carte nei cassetti, con annessi corvi e talpe, interi giardini zoologici evocati nei retroscena dei giornali, dai tempi di Di Pisa e Sica, per dire, sino a quelli recentissimi di Messineo e dell’indagine sulla trattativa Stato-mafia: ogni tanto rispunta, questo fiume sotterraneo, nella narrazione politica italiana, anche se non si capisce chi sia abilitato ad attribuire patenti di qualità e perché. Nenni ammoniva: «Gareggiando a fare i puri, trovi sempre uno più puro che ti epura», ma non molti lo ricordano. Sicché ieri Antonio Ingroia — già procuratore aggiunto di Palermo, già «partigiano della Costituzione», già compagno di palco di Diliberto e fresco candidato alla premiership del Paese («Io ci sto») — ha rinfacciato al suo antico capo Pietro Grasso di «aver reso dichiarazioni pubbliche sconcertanti» (sul premio a Berlusconi, appunto, dando per scontato che Berlusconi sia da citare come il Babau, e che l’intera sua vicenda si possa ridurre a Mangano e Dell’Utri). E naturalmente il famigerato premio è un pretesto, si parla a nuora perché suocera intenda. Qualcosa si capisce dalle esternazioni incrociate ieri mattina da Violante e Caselli, le due facce dei vecchi incubi andreottiani. L’ex presidente della Camera dava il suo imprimatur sul Corriere alla «scelta di Grasso», consigliando viceversa a Ingroia «di non scendere in campo» e anzi bacchettandolo «per qualche cedimento al protagonismo». Caselli, sul Fatto, metteva invece a confronto le «due diverse coerenze» dei colleghi in procinto di cimentarsi, a tutto vantaggio di Ingroia. Solo alla fine della prima colonna della sua (lunga) analisi si arrivava a quello che sembra il punto vero della contesa, l’esclusione («per decreto contra personam») di Caselli medesimo dalla corsa per la Procura nazionale antimafia, poi vinta proprio da Grasso, che nelle opinioni di certi colleghi passa da «normalizzatore», riparatore di rapporti con la politica, una figura retorica da contrapporre a quella del «partigiano permanente» Ingroia, caselliano doc. Aldo Cazzullo ha colto, da piemontese, il senso di quello strappo sull’antimafia che già da tempo aveva contrapposto Caselli e Violante, e incrinato quel loro sodalizio nato nella Torino degli anni Settanta, città del Pci, della cultura azionista, delle fabbriche, del terrorismo rosso. Altri tempi, altre affinità elettive. La superprocura fu il terreno che costò a Falcone le amarezze più brucianti, sempre condite da ipocrisie avvolgenti: «Non c’è stato uomo in Italia che abbia accumulato più sconfitte di Giovanni», disse Ilda Boccassini a Peppe D’Avanzo nel 2002. «Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di ’amici’ che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni». Vent’anni dopo, poco sembra cambiato nei drammi e nelle miserie che si nascondono tra le pieghe della giustizia. Come una faglia che s’allunga per chilometri dal punto di frattura, ecco dunque discendere, dai dualismi veri o presunti Caselli-Violante, Ingroia-Grasso, divisioni e alleanze palermitane che, nel caso di magistrati in piena attività, sono desumibili da segnali più che da endorsement veri e propri. Sicché Roberto Scarpinato («non mi strapperà una parola sull’argomento») passa da gemello siamese di Ingroia, anche per aver scandalizzato assieme a lui vari ministri del governo Berlusconi con un «Programma per la lotta alla mafia» pubblicato anni fa su Micromega. E Giuseppe Pignatone da buon amico di Grasso, che sempre lo difese dagli attacchi dei colleghi in terra di Sicilia. Nei corridoi del palazzaccio palermitano, vecchi cronisti arruolano l’aggiunto Teresi e il pm Di Matteo tra gli ingroiani e giurano sulla fedeltà grassiana di Maurizio De Lucia, che ha seguito il suo procuratore da Palermo fino a Roma e alla superprocura. Rita Borsellino respinge cortesemente ogni casacca (ma la danno per vicina a Ingroia). Maria Falcone sostiene che «Piero farà molto bene, non vedo lo scandalo per le sue dichiarazioni su Berlusconi». Una certa misura di pragmatismo sembra essere entrata nella sinistra vendoliana che pure, se avesse potuto, avrebbe aperto la porta al movimento di Ingroia. Claudio Fava sbotta: «Ho bisogno di funzione politica, non solo di testimonianza. Voglio che il centrosinistra vinca le elezioni con Bersani. Se qualcuno vuole portare la propria virtù fuori da questo seminato, massimo rispetto ma... voto utile». La megghio parola è quella non detta, ripetono a Palermo. Prima o poi anche le due anime dell’antimafia, di lotta e di governo, lo capiranno e smetteranno di beccarsi, almeno in pubblico. Per Cosa Nostra sarà un momentaccio. Goffredo Buccini